di Igor Micciola
Per anni non ho votato. Che senso aveva? Mi sembrava una di quelle cose che si fanno “perché è giusto così” o “perché è un diritto ma anche un dovere del cittadino”. Postulati senza argomentazioni. Per anni non ho votato ed ero convinto che farlo sarebbe stata un’affermazione di coerenza a un principio democratico che si risolveva in una goccia nell’oceano. E quello poi placido continuava con le sue maree, la sua calma piatta e le tempeste, senza ovviamente neanche accorgersi di chi esercitava ottusamente il suo diritto/dovere. Nel mondo triste in cui ognuno per sé e Dio per tutti, le elezioni sembrano davvero solo una specie di formalità, di cerimonia tradizionale di cui nessuno ricorda più il motivo.
Più che cittadini con il potere di scegliere i propri rappresentanti, ci sentiamo sudditi e sopra di noi i nostri signori cambiano faccia senza che cambi mai la sostanza. In effetti, le politiche che contano davvero, quelle che inciderebbero, per esempio, sul nostro potere d’acquisto, non sembrano aver subito la minima variazione: tra “ce lo chiede l’Europa” e crisi economiche, chi è in cabina pare avere il pilota automatico perennemente inserito. Che ci rimane da fare? Andare alla cerimonia e indicare con una croce su un foglio chi ci sta più simpatico tra gli attori della commedia. O peggio, ci rimane il tifo a cui ci porta la comunicazione polarizzata: non un pensiero quindi, ma una sorta di fede mai messa in discussione, pena l’impossibilità di sentirsi partecipi.
Proviamo a pensare a chi, per esempio, vota Pd turandosi il famigerato naso. Sono elettori che spesso si scagliano con violenza o con sarcasmo supponente contro chi vota Lega, senza rendersi conto di prendere parte a uno spettacolo, proprio come chi tifa (appunto) per un cantante o un altro all’interno di un talent show: a vincere non è il concorrente, di cui tutti si dimenticano in fretta poco dopo, ma il talent show stesso. E lo spettacolo della politica prevede pochi concorrenti, altrimenti si fa confusione e la contrapposizione perde forza: i temi non devono essere tanti e le argomentazioni il più semplici possibile, perché diversamente si costringe il pubblico a riflettere, con il rischio di frustrarlo con l’incertezza o, peggio ancora, di annoiarlo.
Che la differenza sia quasi inesistente fra gli schieramenti è evidente quando si parla di soldi, quando si tratta di scegliere come usare i fondi delle varie istituzioni pubbliche. Ecco il finto scontro fra centro-destra e centro-sinistra: basta ricordare i complimenti che Bonaccini faceva (addirittura durante la stessa campagna elettorale del 2020!) ai governatori leghisti di Veneto e Lombardia, così come la Lega, nello stesso periodo, ammetteva il buon governo dell’Emilia-Romagna. Come si spiega? È lo show, in cui non si deve mai mettere in discussione l’infallibilità del mercato. Di conseguenza, se tutti gli indici economici e le varie classifiche dicono che quelle tre regioni sono un esempio, allora per un momento si mettono da parte i panni degli sfidanti e si annuisce al buon risultato. Come il giornalista che non parla mai male del suo editore.
Adesso il carrozzone toccherà Parma, con le elezioni dopo l’epoca Pizzarotti, sorta di progetto grillino abortito in corsa. Il candidato che vinse con il Movimento 5 Stelle le elezioni “rivoluzionarie” nel 2012, dopo e a causa dello scandalo giudiziario che travolse la Giunta Vignali, e che doveva rappresentare la prima esperienza contro la politica dei soliti partiti, rinnegò subito il suo carattere “ribelle” e di contrapposizione alla casta (parola in voga allora anche grazie ai pentastellati). Pizzarotti si accodò gradualmente alla corte di Bonaccini, anche se in consiglio il Pd parmigiano si offriva in un’acrobatica opposizione: da una parte lo stesso Pd in Regione sosteneva il sindaco di Parma, dall’altra il Pd in città lo combatteva, per un effetto tragicomico. Risultato: i pizzarottiani di Effetto Parma in queste elezioni si alleano con gli “acerrimi nemici” del Pd, come se nulla fosse. E così Guerra, ex assessore della giunta uscente, è adesso fra i favoriti di queste elezioni. È lo show. Uno spettacolo che ha bisogno di pochi contendenti, altrimenti ci si confonde. Quindi, sempre per semplificazione, va trovato un avversario a destra. Qui lo show però ha superato sé stesso, nella ricerca del tragicomico, e ha scelto Vignali, proprio il villain dei guai con la giustizia e che aveva condannato la città a un debito enorme fino al commissariamento, proprio il protagonista di quella vicenda che aveva permesso a uno sconosciuto Pizzarotti di smentire qualsiasi pronostico. Una specie di rivincita appassionante, come se Ivan Drago tornasse a sfidare Balboa in Rocky 10. E chi se lo perde!
A questo punto qualcuno potrebbe dirmi: d’accordo, ma io sono di sinistra, mi rendo perfettamente conto di quanto sia imbarazzante Vignali e, proprio per questo, se permetti preferisco Guerra a lui. È lo stesso discorso che si faceva vent’anni fa contro Berlusconi e, più recentemente, contro Salvini: voto utile, il meno peggio, turarsi il naso. Insomma, già non contiamo niente, figurarsi poi votare per qualcuno che non vincerà mai. Bene, mi pare evidente che fare questo discorso significa ammettere che in fondo lo show non ci ha ancora stancato. Anzi, non sarà un granché e magari potevano cambiare attori e sceneggiatori ormai bolliti, ma già che ci siamo vogliamo vedere come va a finire. Come ci succede con quelle serie tv che ci ostiniamo a guardare perché non sappiamo che altro fare prima di andare a letto.
Eppure, il 12 giugno a Parma i candidati saranno una decina, dunque la possibilità di guardare oltre lo spettacolo in programma c’è. Certo, molti di loro sono intercambiabili e in alcuni casi la loro distanza si misura su sfumature di colore più che trascurabili. Ma mancano due mesi e abbiamo tutto il tempo di informarci e farci un’idea precisa al di là del giudizio preconfezionato: potremmo sorprenderci a trovarci pienamente d’accordo con una o, addirittura, più liste mai considerate. Ovviamente a patto di non appiattirci sulla logica del voto utile. In altre parole, forse possiamo davvero scegliere per una volta secondo le nostre convinzioni o, se non altro, secondo un orientamento di massima. Senza contare che i turni saranno quasi certamente due, oltre alla possibilità del voto disgiunto.
Scegliere secondo quello che pensiamo, votare senza quel vago senso di nausea, sapendo di contribuire per l’affermazione di una cultura politica che rinnega lo spettacolo stesso. Nel mondo triste di ognuno per sé e Dio per tutti, resistere significa questo: rifiutarsi di alimentare lo show, di chiudere un occhio sulla presa in giro pur di partecipare o sentirsi utili. Significa dare forza a quel tarlo che nell’immaginario collettivo mette in discussione il nostro status quo deprimente. È unirsi a quel tarlo che può aprire le crepe di cui abbiamo bisogno.
Chiediamoci, a chi fa comodo la nostra rassegnazione?