di Redazione
Dietro un lungo striscione bianco con la scritta “Parma chiede di Svoltare”, lunedì 18 gennaio è andata in scena la protesta del centrodestra parmigiano contro l’amministrazione comunale di Federico Pizzarotti, criticata per le sue responsabilità negli illeciti di cui è accusato il legale rappresentante della cooperativa Svoltare. A passarsi il megafono, ben vestiti e pettinati davanti a qualche decina di persone, sono i leader di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Tra loro anche qualche personalità balzata alla cronaca per modalità non proprio ortodosse nel fare propaganda, come Priamo Bocchi. Ma per chi ha un minimo di memoria, il presidio ha rispolverato volti ben più inquietanti, anche se nascosti dalle mascherine. Tra gli oratori, infatti, spiccava la muscolosa e impettita figura di Giovanni Paolo Bernini, un dirigente politico di Forza Italia che ha senz’altro fatto la storia degli ultimi decenni di questa città. Non crediamo in senso propriamente positivo.
Bernini, parmigiano classe 1963, ha iniziato la sua “passione politica”– leggiamo dal profilo autobiografico di una pagina promozionale – nei giovani del partito socialdemocratico nel 1990, entrato poi in Forza Italia, è eletto consigliere comunale nel 1994, diventandone un esponente importante, tanto da ricoprire anche ruoli di spessore a livello nazionale, come per esempio quello di consigliere, dal 2002 al 2006, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, retto in quel momento da un altro parmigiano e aderente a Forza Italia, Pietro Lunardi (ingegnere e imprenditore edile datosi alla politica attiva). O quello più locale di presidente del consiglio comunale dal 1998 al 2007, durante l’amministrazione di Elvio Ubaldi. Rieletto in consiglio nel 2007, questa volta gli viene affidato l’incarico di assessore alle politiche educative, per le disabilità, personale e organizzazione, nella giunta guidata da Pietro Vignali. Ed è in questa veste che viene coinvolto dalla magistratura negli scandali del 2011, quando è accusato e arrestato per l’inchiesta “Easy money”.
Eppure, durante un suo intervento in occasione del presidio di lunedì scorso, con invidiabile serenità Bernini ha sfidato il senso del ridicolo rievocando quel periodo di dieci anni fa e prendendo a pugni logica e verità. «Vedete? Oggi, non ci sono le pentole, i tamburi, né la gente che urla “Onestà, onestà!”». Dev’essergli rimasta impressa quell’immagine dell’estate 2011. Così come per noi rimane memorabile il suo tentativo di uscire dal Comune, in uno dei quei giorni concitati, mentre sotto i portici del grano si sono riunite centinaia di manifestanti in protesta per lo scandalo giudiziario: ce lo ricordiamo “Big Jim” (il nomignolo che gli era stato affibbiato allora) mentre scende le scale, scortato dai vigili urbani, e capisce che la porta principale non è l’idea più furba. Meglio il portone sul retro, che dà su borgo San Vitale. Ma la cosa davvero indimenticabile è la sua espressione di sconcerto quando si rende conto che anche quell’uscita è presidiata da cittadini spettinati ma ben informati.
Alla luce di tutto questo, quelle parole dette ora proprio in piazza Garibaldi suonano come uno schiaffo alla Parma che combatteva l’arroganza e il senso di impunità del Palazzo e che, secondo la giustizia italiana, aveva ragione da vendere. La vicenda giudiziaria di Bernini, infatti, si è conclusa con il rito abbreviato nel febbraio 2017: è stato condannato a due anni e sei mesi per i reati di tentata concussione e corruzione aggravata. L’ex assessore, davanti alla corte, ha dichiarato di essersi trovato in “gravi difficoltà economiche” dopo le spese per la campagna elettorale del 2007 e di aver chiesto un “contributo” per il pagamento dei debiti. «Sarebbe stato un contributo assolutamente facoltativo e con cifra imprecisata – ha detto Bernini −. Non si può chiamare tangente: 7.900 euro era lo 0,4% del valore dell’appalto». Quindi ha chiesto che, casomai, il reato di corruzione fosse riqualificato come illecito finanziamento elettorale. (Per dovere di cronaca, bisogna aggiungere che la Corte d’appello di Bologna, nel marzo 2019, ha ridimensionato la condanna a un anno e otto mesi).
La sua corsa a ostacoli con la legge, nel frattempo, ha preso nuove strade. Coinvolto nell’inchiesta “Aemilia” sull’infiltrazione della ‘ndrangheta negli appalti edilizi in alcune città dell’Emilia Romagna, inizialmente Bernini è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi di voto di scambio politico-mafioso: due capi d’imputazione decaduti e ridimensionati a reato di corruzione elettorale semplice, peraltro caduto in prescrizione. Su quest’ultima vicenda, poi, il nostro ci ha scritto addirittura un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, edito dalla casa editrice Mediolanum e con la roboante prefazione di Vittorio Feltri. Fatto sta che, ricandidatosi alle elezioni europee del 2019, sempre per Forza Italia, la commissione parlamentare antimafia lo segnala come “impresentabile” perché condannato in via definitiva per corruzione e atti contrari ai doveri di ufficio.
L’esercizio della memoria è utile e su una cosa siamo d’accordo con Bernini: siamo inconciliabili e diversi, noi ci teniamo le pentole, a lui lasciamo la bandiera (un po’ lisa) della Parma “da bere” naufragata dieci anni fa.