C’è l’infodemia, signora mia!

di Marco Severo

Il vecchio prof di Teoria della comunicazione, alla scuola di giornalismo, era solito mettere in guardia gli allievi circa una serie di vizi e degenerazioni della professione giornalistica riscontrabili nella figura da lui definita del “riempitore di pagine”. Era un attimo e si finiva per diventare riempitori di pagine, sosteneva. Magari si partiva con le migliori intenzioni, ottime letture, idealismo e romanticismo e tutto quanto, poi niente: riempitori di pagine.

Era il 2006 e il primato dell’informazione classica, cioè della triade carta stampata-radio-tv, stava per essere abbattuto dall’insorgenza di una nuova specie di mass media: i social network e in generale i mezzi digitali. Ma i riempitori di pagine a cui alludeva il prof di Teoria della comunicazione erano tutti individuabili, ancora, entro il perimetro del giornalismo classico, nei quotidiani, nei settimanali, nei radio-telegiornali. A questi riempitori di pagine egli attribuiva qualità poco lodevoli per quanto abbastanza ricorrenti fra gli addetti ai lavori, quali la sciatteria, la pigrizia, il conformismo linguistico e anche morale, l’adesione acritica alle più vacue tendenze estetiche, l’irresponsabilità, l’amore per la polemica pretestuosa: insomma tutto ciò che svilisce le ambizioni del giornalismo e ne tradisce l’alto mandato civile. Quando sarete là fuori, raccomandava il vecchio prof di giornalismo, guardatevi da coloro che vorranno far di voi semplici riempitori di pagine.

Il 22 giugno scorso Repubblica.it ha pubblicato la nuova rubrica TrUe, gioco di parole brillante per un progetto avviato in collaborazione con il Parlamento europeo allo scopo di “combattere le fake news”, come si legge nel titolo dell’articolo inaugurale. La rubrica ha l’ambizione infatti di rivelare e comprendere “da dove partono le false notizie, per smentirle e per difendersi dalla disinformazione”. Si tratta in sostanza di un tentativo da parte di una testata convenzionale di affrontare a viso aperto la concorrenza dei nuovi soggetti dell’informazione online, quegli innumerevoli velieri corsari che attraverso i social network veleggiano veloci nel mare delle notizie sottraendone il controllo ai novecenteschi mezzi di comunicazione ufficiali. La rubrica TrUe di Repubblica.it sarebbe in tal senso uno strumento di contrasto progettato per dare la caccia alle balle, alle bufale, alle fregnacce che stanno disciolte in quel mare e che oggi hanno pure guadagnato lo status di strumento politico sotto il concetto ombrello di post-verità, definizione impostasi negli ultimi anni per sintetizzare il costume di rappresentare il mondo sulla scorta di credenze infondate, mistificazioni, leggende e paranoie.

I primi esempi di fake news citati dalla nuova pagina di Repubblica.it riguardano interamente la cosiddetta infodemia da Covid-19, una malattia virale dell’informazione che alcuni governi avversi all’Unione europea – in particolare quelli di Russia e Cina – avrebbero messo in circolo sfruttando l’emergenza mondiale dell’epidemia da Coronavirus per indebolire le istituzioni occidentali attraverso la diffusione intenzionale di menzogne. Un fiume di propaganda alimentato da nuovi guerriglieri della disinformazione è stato riversato sull’Europa, secondo TrUe, per volere del Cremlino e di Pechino a partire dalle prime settimane di Covid-19 allo scopo di “danneggiare la risposta sanitaria da parte delle autorità nazionali ed europee, per aggravare la pandemia e minare la coesione sociale nei nostri paesi, la tenuta democratica interna e la stessa Ue”. Siamo al complottismo istituzionalizzato, ma tant’è.  Ad aprile, riferisce sempre TrUe, alcuni siti di propaganda legati al governo russo hanno preso a sostenere la responsabilità di Bill Gates nella diffusione mondiale del virus. Dopo pochi giorni a Berlino, come volevasi dimostrare, migliaia di persone hanno manifestato contro il tentativo di Bill Gates di imporre una dittatura globale. Qualcosa di analogo, a parte la cosa demenziale di Bill Gates, sarebbe successo in Italia con i Gilet arancioni ai primi di giugno, canale di affioramento presso una parte dell’opinione pubblica italiana delle diffidenze corroboratesi nei riguardi delle istituzioni durante l’emergenza sanitaria. Anche in Italia, infatti, Mosca e Pechino avrebbero avuto un ruolo nel far lievitare il senso di tradimento da parte dell’Ue e l’impressione di solidarietà ricevuta invece da Russia e Cina.

Attila Hildmann interviene durante una manifestazione anti-lockdown a Berlino

Il 23 giugno scorso il nuovo e sempre versatile direttore de La Stampa, Massimo Giannini (già vicedirettore de la Repubblica, direttore di Radio Capital e conduttore Rai), ha scritto una lettera alla redazione per illustrare il suo piano di lavoro, la riorganizzazione del giornale, le promozioni e i trasferimenti di colleghi. Nel documento Giannini ha spiegato che, a suo parere, il sito de La Stampa è troppo statico, lento negli aggiornamenti delle news se paragonato alle testate online concorrenti. Pur precisando che gli stanno molto a cuore le Top news, ossia le notizie di approfondimento, quelle appunto più lente, a pagamento, il neodirettore ha esortato i colleghi a “una maggiore prontezza di riflessi sul ‘rullo’ delle notizie”. Giannini vuole ritmo, reattività perché, ha scritto, “com’è noto la rete è ‘flusso’, e nel flusso noi dobbiamo starci come e meglio degli altri. È la prima e la più ovvia delle ‘esche’ che possiamo lanciare, dentro quel flusso ben fatto e ben regolato, per pescare un numero sempre maggiore di utenti disposti a pagare per i nostri contenuti”.

Nel giornalismo online la legge ineluttabile del rullo prevede sovrabbondanza di stimoli, varietà di input, aderenza all’affastellarsi delle notizie di giornata, sintonia con l’umore pubblico unita a una certa dose di ruffianeria nei riguardi dei lettori. Mentre questo articolo viene scritto va forte, per dire, il video di Vittorio Sgarbi che lungo disteso viene trascinato a forza fuori dalla Camera dei deputati. Qualche giorno prima era stato il turno di Matteo Salvini che mangiava le ciliegie.

Fino a qualche tempo fa la ricetta, più tipica dell’intrattenimento che dell’informazione, puntava a massimizzare i clic capitalizzando più visite possibili al sito, così da poter vantare numeri appetitosi presso gli inserzionisti pubblicitari (più gente guarda quel sito più gente noterà l’inserzione, per esempio, del nuovo Suv ibrido). Di recente, in considerazione del calo fatto registrare da quest’ultimo tipo di introiti, le principali testate online italiane hanno preferito puntare su forme miste di paywall, il sistema di autofinanziamento fondato sugli articoli a pagamento. L’atteggiamento delle redazioni però non è cambiato. Il paternalismo nei riguardi dell’utenza (“utenti” e non lettori, nella lettera di Giannini) punta ancora a “pescare” (sempre Giannini) nuovi clic attraverso il rullo e attraverso i frequenti aggiornamenti, le notizie snack, i temi caldi ripresi dai social network, i gossip, i video – video a volontà, spesso, come per esempio nel caso di Repubblica.it e almeno in parte del Corriere.it disposti sulla homepage come prima proposta per il pubblico, in una striscia collocata appena sotto la testata: caso unico fra i principali giornali online europei.

Non che i video siano da disprezzare ma, insomma, è ormai assodato che il rullo e probabilmente non solo il rullo puntino all’emotività del lettore più che all’informazione puntuale. Fin dalle scelte grafiche e dall’impaginazione, i siti di informazione mirano in genere alla quantità prima che all’approfondimento, alla spettacolarizzazione piuttosto che alla chiarezza. Parliamo fra l’altro di un settore lettori che fa registrare numeri considerevoli. Secondo i dati pubblicati da audiweb.it relativi alla prima settimana di giugno, le cinque testate più cliccate in Italia contano dagli 8 ai 13 milioni di lettori settimanali, con punte di oltre i 5 milioni al giorno, contro le circa 200 mila copie giornaliere tirate dalle stesse testate con il cartaceo. Questi lettori si preferisce attirarli con il rullo per farli poi pagare invece di, per esempio, coinvolgerli in un discorso esplicito basato sulla fiducia nel lavoro dei giornalisti di quel quotidiano e, conseguentemente, esortarli a contribuirvi con un libero sostegno economico.  

Si diceva il rullo. In relazione agli ultimi mesi e a questi giorni di ibrido ritorno alla normalità dopo il picco della pandemia, il rullo è stato ed è il principale artefice della confusione riscontrata nelle notizie sul Covid-19. Il rullo in quanto rullo riversa ininterrottamente, 24 ore su 24, materiale all’ingrosso per “l’utenza”. E così può capitare che il rullo ci scodelli oggi il professor Remuzzi: “Basta paura ingiustificata, ora tanti positivi non sono contagiosi”, (Corriere.it, 19 giugno), e che domani sguinzagli al contrario il professor Galli: “Virus rabbonito? Demenziale e irresponsabile sostenerlo” (sempre Corriere.it, 24 giugno). Oggi il viceministro della Salute Sileri ci conforta: “La situazione va meglio, la seconda ondata non dovrebbe esserci” (Il Messaggero.it, 15 giugno), e domani l’Oms ci schianta proprio mentre stavamo calzando le infradito belli svagati: “Può tornare in autunno come la Spagnola che fece 50 milioni di morti” (sempre Il Messaggero.it, 26 giugno). Oggi il rullo ci informa – qualora ci fossimo persi la novità – che c’erano “Tracce nell’acqua. Il virus era in Italia già prima di Natale. La scoperta nei flussi di scarico” (La Stampa, 19 giugno), e poi – si vede che la faccenda degli scarichi ha il suo pubblico – ci aggiorna sul fatto che c’erano “Tracce di Covid nelle acque reflue di Barcellona già a marzo 2019” (sempre La Stampa, 26 giugno). Nel rullo all’ingrosso finiscono poi nel mucchio anche l’inossidabile “Michelle Hunziker in bikini” che “inaugura la sua estate italiana” (TGCOM24, 13 giugno) e Diletta Aleotta che fa trekking con costumino vedo-non vedo-massichevedo (sempre TGCOM24, 15 giugno). Tutto ciò sempre che non torni in campo la Serie A, perché in quel caso no, in quel caso i virologi, gli epidemiologi, le acque reflue e pure i bikini non hanno nulla da opporre a Ronaldo che sbaglia il rigore perché la quarantena è stata brutta per tutti.

Ora, se è evidente che l’online si regge sul concetto dell’istantaneità e sul refrain “le notizie vanno date”; se è altrettanto pacifico che sul tema del Covid-19 la confusione è connaturata al fenomeno raccontato e non è corretto addossare la responsabilità del gran ballo quotidiano ai soli mass media; se è vero che alcuni segnali indicano un cambiamento di paradigma e di linguaggio dei maggiori quotidiani online italiani, i quali mostrano buona volontà costruendo pagine di giornalismo longform e di qualità (con reportage e inchieste a pagamento appunto), è altrettanto vero che il rullo lasciato a noi sfortunati o squattrinati che non vogliamo o non possiamo ridurre tutto al “prima vedere soldi poi dare cammello”, andrebbe governato e deposto dal sacro piedistallo sul quale lo hanno piazzato i fedeli del “mi scappa la notizia”. A meno che non riteniamo imprescindibile intervistare un virologo al giorno per avere le idee più chiare sull’andamento del Covid-19, e che non siamo persuasi del valore aggiunto di quell’intervista non considerandola, viceversa, puro accanimento sul lettore.

L’infettivologo professor Massimo Galli

Il paternalismo del giornalone che imbocca a forza “l’utente” con cucchiaiate di sbobba quotidiana, ingoia che diventi forte e puoi tenere il passo dei tempi, ecco questo paternalismo non è più attuale. Il rullo infatti non sa o finge di ignorare che non è più l’epoca della caccia alle notizie a raffica. Il quotidiano online non può dare notizie in esclusiva e in velocità, non può perché le news oggi sono ovunque. Sono loro che cercano noi e non più il contrario. L’affannarsi dei giornali web aggiunge frastuono al rumore di fondo del torrente dell’informazione, il flusso delle news trascina con sé a valle tutto, comprese la fake news ovviamente. E le fake news, nel frastuono del torrente, non si distinguono più, si confondono nella portata, vengono metabolizzate e diventano senso comune (i berlinesi che manifestano contro Bill Gates!). Oppure, viceversa, vengono riconosciute eccome, hanno una densità e un colore diverso, attirano l’attenzione ormai esausta del pubblico che, proprio perché esausto, è indotto a sballarsi con le fake news.

In entrambi i casi, che le balle siano mescolate e irriconoscibili o che le balle siano ben individuabili nello scorrere frenetico della comunicazione, i media tradizionali non possono tirarsi fuori dal cerchio delle responsabilità delle disfunzioni dell’informazione. La nuova rubrica TrUe di Repubblica.it, oltre a rivelarci dove nascono le false notizie e a che scopo, additandoci i cattivi (Mosca e Pechino, per quanto certo Mosca e Pechino non siano campioni di simpatia) TrUe dimentica di spiegarci perché nascono e proliferano le false notizie. Non ci dice nulla della sfiducia ormai generalizzata nella stampa tradizionale, soprattutto in quella cartacea ma evidentemente non solo in quella. Omette di raccontarci – magari lo farà in seguito, chi lo sa – le origini della crisi di rispettabilità dell’élite dell’informazione e di spiegarci i motivi di ciò, una crisi peraltro del tutto analoga alla crisi di fiducia nella classe politica. Ammesso e non concesso che davvero la fake news di Russia e Cina abbiano inciso sugli atteggiamenti dell’opinione pubblica europea, vien da chiedersi perché sia stato lasciato a quelle bufale uno spiraglio in cui infilarsi. Non sarà che qualcuno ha comunicato male le iniziative approntate dall’Ue per fronteggiare l’epidemia di Covid-19? Non sarà che, forse forse, la Ue stessa ha agito con ritardo e svogliatezza?

Quando le promesse fatte dai corpi intermedi vengono meno, nel nostro caso la promessa di chiarezza e lealtà da parte degli specialisti dell’informazione, molta gente non è più disposta a credere a quei corpi intermedi e si rivolge altrove oppure fa da sé (la disintermediazione famosa). La disaffezione o addirittura il risentimento verso le autorità produce rappresentazioni alternative del mondo. Se siamo disposti a credere che Bill Gates sia il colpevole del Covid-19 o ad altre cazzate simili è a causa della reale e non solo percepita perdita di precisione dei centri del sapere.

Il giornalismo sembra non aver ben presente l’ordine di causa-effetto di questi processi, scambiando il secondo per la prima. Parla nella sua referenzialità a un pubblico che sta mutando alla velocità della luce, che non è più disposto al “paghi 2 e prendi 3”, dove il “3” è il fustino della sciatteria, della pigrizia, del conformismo sia linguistico che morale, dell’adesione acritica alle più vacue tendenze estetiche, dell’irresponsabilità, dell’amore per la polemica pretestuosa. La crisi del giornalismo tradizionale sconta decenni di cattivo servizio da parte di tutta una generazione di riempitori di pagine, che dai media novecenteschi si sono riversati nei quotidiani online trovandovi al fine le condizioni propizie per prosperare e fare tendenza. Troppo facile cavarsela, ora, con una rubrica sulle fake news e urlare che c’è l’infodemia, signora mia.