Il decreto Cura Italia o cura profitti?

di Andrea Scannavino*

E così il tanto atteso Dpcm Cura Italia è arrivato. Dopo tanti proclami, anticipazioni, retromarce e rassicurazioni, finalmente il premier Conte rompe gli indugi e come di consueto in diretta Tv e Facebook annuncia le nuove misure per la tanto attesa Fase 2. Come tantissimi, ero anche io seduto davanti lo schermo in attesa delle nuove disposizioni: non una parola sull’analisi della curva epidemiologica, degli avanzamenti fatti per lo screening sulla popolazione che presto tornerà a lavoro, soltanto parole confuse che volevano dire tutto e il contrario di tutto.

Dal 4 maggio, torneranno a lavoro quasi cinque milioni di persone, riapriranno la manifattura, le costruzioni e il commercio all’ingrosso funzionale, il tessile, la moda, l’automotive, il vetro, l’industria estrattiva, la fabbricazione di mobili. Il tutto mentre il contagio è sì sceso, ma perdura a livelli ancora molto preoccupanti. Soltanto negli ultimi tre giorni Parma registra un aumento di 90 contagi, che è rassicurante rispetto ai numeri delle scorse settimane ma non ancora fuori dai livelli di emergenza. Mentre in Germania si registra un’impennata della curva epidemiologica dopo aver allentato le misure di lockdown il 20 aprile.

Rimane evidente come le fabbriche e i cantieri siano i luoghi dove maggiormente si è diffuso il contagio, con picchi del più 25% nelle fabbriche aperte, come dimostra l’Inps. Rimanendo ancora nella sfera dei dati, l’Inail ci dice anche che il 15% dei lavoratori usa un mezzo pubblico per recarsi a lavoro. Sulla base di queste evidenze, è ragionevole pensare che in caso di riapertura di alcuni settori produttivi ci possa essere un aumento dell’utilizzo dei trasporti sia da parte dei lavoratori che da parte del pubblico, rischiando un aumento del numero dei contagi, dovuti al trasporto pubblico. Ancora una volta si mette a repentaglio la salute pubblica e delle persone a favore del profitto di pochi.

E mentre il Premier ripeteva “a pappagallo” un decreto scritto da Confindustria, anticipando le cifre previste per il sostentamento delle imprese e rimandando una eventuale ricrescita dei contagi alla responsabilità del singolo cittadino, pensavo a tutte le persone che in questi mesi sono chiuse in casa senza alcuna fonte di sostentamento, attingendo chi può ai pochi risparmi degli ultimi anni.

La sospensione, anche se temporanea, delle attività produttive per fronteggiare l’emergenza sanitaria del Covid-19 ha, fra le altre cose, causato il venir meno dell’unica fonte di reddito familiare per 3,7 milioni di lavoratori. A essere più colpite sono le coppie con figli (1.377 mila, 37%) e i genitori ‘soli’ (439 mila, 12%) con il rischio di non riuscire a fronteggiare le spese quotidiane. È quanto emerge dall’analisi di “Covid-19: aumentano le famiglie in ristrettezza economica”. Secondo la Fondazione dei Consulenti sul lavoro, si tratta di un dato preoccupante se si considera che ben il 47,7% dei lavoratori dipendenti dei settori che hanno chiuso guadagnava meno di 1.250 euro mensili e il 24,2% si trova addirittura sotto la soglia dei mille euro. È coinvolta, oltre ai ceti più deboli a rischio (o già in) povertà, anche la vasta platea di lavoratori a reddito medio-basso, per la quale l’assenza di reddito anche per un solo mese può determinare una situazione di grave disagio. Tra gli altri profili sociali in bilico, poi, i giovani (oltre il 60% della popolazione tra i 25 e i 29 anni abitualmente non supera i 1.250 euro), mentre da un punto di vista territoriale è al Sud che si ha la maggiore concentrazione di disagio con un’incidenza dei monoreddito, tra i lavoratori dipendenti temporaneamente senza lavoro, pari al 49,6% (contro il 35,2% dei residenti del Centro e il 34,3% del Nord Italia).

Alla luce di una fotografia drammatica dell’Italia sempre più soggiogata alle logiche neoliberiste dell’Unione Europea, salta agli occhi di tutti che i provvedimenti esistenti sono frammentati. E limitati nel tempo.  Tutto questo si traduce in risposte carenti alla necessità di un sostegno al reddito durante il blocco, con briciole per coloro che sono già vulnerabili ed esposti poiché, secondo le logiche di debito e austerità che ci troveremo davanti, la disoccupazione e i rapporti di lavoro precario dilagheranno nel corso della prossima recessione. Non basterà il cosiddetto reddito di emergenza di 500 euro introdotto dal Dpcm, perché una generazione intera di giovani precari vive una condizione di emergenza da sempre.

Già, da sempre la generazione a cui appartengo ha vissuto nella favola della competizione, del sacrificio e dell’individualismo, mentre il mercato del lavoro che ci propinavano si faceva sempre più povero e violento, costruendo un substrato di giovani senza futuro che insieme a facchini, braccianti, colf e badanti si trovano oggi senza un euro in tasca per pagarsi non solo l’affitto ma addirittura la spesa. È evidente che questa crisi non ha colpito tutti allo stesso modo, altro che siamo sulla stessa barca!

Non appena il rischio di contagio si placherà e il lockdown sarà allentato, le misure di distanziamento sociale avranno un grosso impatto sulla domanda di lavoro. Dirigenti, amministratori delegati e lavoratori della classe media che sono passati a lavorare da casa, possono fare affidamento su flussi di reddito continui e rapporti di lavoro. Al contrario, un numero elevatissimo di lavoratori dei settori che sono stati bloccati dal 9 marzo (manifatturieri e dei servizi alla persona) è stato costretto a smettere di lavorare poiché i loro settori sono stati considerati non indispensabili, in particolare, tra gli altri, i lavoratori dei servizi nel settore del turismo, dell’intrattenimento e dell’aviazione. Per loro che dipendono da occupazioni stagionali e a breve termine, atipici e insicuri, saranno maggiori le successive perdite di posti di lavoro man mano che le attività saranno ridimensionate a causa dell’imminente recessione economica.

Una battaglia sul reddito incondizionato per tutte le figure escluse da cassa integrazione e fondo di solidarietà diventa fondamentale, se accompagnata da una battaglia sul salario minimo garantito e sulla riduzione dell’orario di lavoro a sei ore, in modo da arginare non solo il dilagare della povertà e delle condizioni di ricattabilità, ma anche per contrastare allo stesso tempo un mercato del lavoro che ci ha trasformati in automi esistenti per una sovrapproduzione di ricchezza per pochi.

Il re è nudo. Questa pandemia fa emergere le linee da seguire per un conflitto ampio. Un’opportunità che deriva dalla consapevolezza che non si può tornare indietro alla loro normalità, tenendo bene a mente che una nuova normalità potrebbe essere peggiore della precedente. Gli scenari che questa crisi ci presenta davanti avranno a che fare con l’organizzazione politica: starà a noi tutti interconnettere le lotte per il reddito, il salario e l’organizzazione della produzione affinché una singola vittoria, come può essere il reddito di emergenza, si trasformi nell’ennesima guerra persa.

Dai movimenti ecologisti a quelli transfemministi, un grido si solleva comune in tutto il mondo. Il disastro in cui siamo non può essere curato con le ricette che l’hanno causato. Oggi è chiaro che ridurre la quantità di lavoro serve per motivi sanitari e climatici, per questo va rilanciata la proposta di un reddito incondizionato per costruire un futuro di benessere, dignità e cura della persona e dell’ambiente circostante.

 

(*attivista Art Lab Occupato)