di Milo Adami
«Ci dovevamo fermare» ha scritto Mariangela Gualtieri in una fulminante poesia intitolata Nove marzo duemilaventi, “Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti che era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi. Agitare ogni ora – farla fruttare». Le pensavamo tutti, queste parole, ma non riuscivamo a dirle, perché? Per inerzia, per paura, insicurezza, hybris, superbia, vanità, sapevamo di aver esagerato, era troppo, troppo di tutto, consumo, rumore, chiasso, profitto, lavoro, troppo fin quasi allo sfinimento, all’eccesso, tutti in cuor nostro lo sentivamo, dovevamo fermarci eppure non riuscivamo «Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare». Ora è silenzio, una quiete sospetta, irreale, un’atmosfera metafisica come nelle celebri piazze del pittore De Chirico, una calma preludio di tempesta. Vuoto di riferimenti in cui tutto è da ripensare come il dopo 8 settembre raccontato da Beppe Fenoglio. Dopo settimane di attesa, come in un grado zero, il pensiero si ricompone, riordina idee, vede quel che prima non vedeva o non poteva, voleva, chissà?
Ricordo che dovevamo fermarci ma non riuscivamo, erano i primi giorni del virus e la situazione sembrava contenibile. Il 27 febbraio un video virale si diffonde come un mantra «L’Italia non si ferma, #Milanononsiferma”, in molti ci sentivamo forti, immuni, lo spot recitava: “Milano, milioni di abitanti. Facciamo miracoli ogni giorno. Abbiamo ritmi impensabili ogni giorno. Portiamo a casa risultati importanti ogni giorno perché ogni giorno non abbiamo paura. Milano non si ferma». Altre città seguono lo stesso esempio, Bergamo, Torino, anche Parma pubblica un video simile, le preoccupazioni latenti sono quelle di vanificare quanto ha costruito e investito nell’anno come capitale della cultura.
La situazione precipita il 12 marzo, l’assessore Michele Guerra comunica ufficialmente che Parma2020 non potendo garantire gli “eventi” in programma, si ferma. Il 20 marzo parte un nuovo appello (sottoscritto dal sindaco Pizzarotti, dal presidente Bonaccini e molti altri) per rinviare Parma 2020 al 2021 e salvare il salvabile. Tra i tanti a sostenerlo c’è il neo-assessore alla Cultura della regione Emilia Romagna, Mauro Felicori, che dichiara: «Sarebbe un bel modo per garantire a Parma e a tutto il territorio regionale di non perdere questa straordinaria occasione, a cui tantissimi hanno lavorato, e dire al Paese che non ci arrendiamo, perché reagiremo e ripartiremo come sempre». E se, invece, effettivamente accettassimo la resa come un’opportunità per fermarci veramente, riflettere e con sincerità ammettere che quel modello di sviluppo non ripartirà? Forse non sarà del tutto un male, dalla perdita potremmo ricavarne un’inedita opportunità di crescita e la cultura potrebbe persino dar forma e incoraggiare un modo nuovo di vivere insieme lo spazio pubblico. Proverò a spiegare il mio punto di vista.
Guardando alle strade vuote, solo ora per paradosso capiamo quanto fosse insostenibile quella presunzione di crescita infinita, “eventismo” esasperato, dove la città deve abbondare di beni, cibo, orgoglio, offerta “culturale”, come in un paese dei balocchi per attrarre il turista/salvatore, mentre nell’ombra nasconde in cantina le sue periferie, taglia risorse, abbandona lavoratori dello spettacolo sottopagati o non pagati al loro destino, non incentiva, non investe, se non nel grande evento magno gaudio che tutti noi nutrirà.
In Italia, ha scritto nel suo bel libro Sarah Gainsforth (Airbnb città merce, Deriveapprodi, 2019), alla museificazione dei centri storici, alla gestione delle città d’arte come prodotti di lusso fanno da contraltare esercizi che chiudono, caro affitti, gentrificazioni, quartieri bed&brakfast: chi beneficia, si chiede la giornalista, della ricchezza generata dal turismo globale? «Non beneficia la città, il cui patrimonio storico e culturale è ridotto a fondale e location di grandi eventi… Il modello industriale del turismo sta rendendo le città invisibili e tutte uguali tra loro. Forse, per uscirne, ci vuole un cambio di prospettiva: non è un turismo “sostenibile” che renderà le città “vivibili”, ma la possibilità, per tutti, di abitare le città, inclusi i loro centri storici».
La vera sfida non è quella di rimandare grandi appuntamenti ma pianificare o immaginare che tipo di società ricostruire al nostro ritorno. Affidarsi solo e soltanto agli eventi per trainare l’economia di un territorio (dal Giubileo 2000 in poi) si è rivelato un modello frammentario, disomogeneo, circostanziale, in certi casi poco trasparente. Ricominciare viceversa dal micro, consapevoli dei danni apportati dal macro, è un punto di inizio. Le idee non mancano, servirà audacia, razionalità, sensibilità e fantasia: ripartire dai territori, dai quartieri, dalle comunità, incentivare progetti di micro economia, di micro imprenditorialità, di cultura dal basso, finanziare reti virtuose, istituire comitati di artisti in grado di animare l’offerta culturale di un quartiere. La cultura potrà giocare un ruolo fondamentale per riattivare una fiducia oggi sopita. Quando l’emergenza passerà, la logica dell’eventismo, del one shot, dentro/fuori, tutto/subito/troppo, ci apparirà un ricordo lontano. Nel nostro letargo avremo riscoperto che la cultura è prima di tutto un bene essenziale per la crescita dell’uomo e per la sua comprensione dello stare al mondo; al pari di altri settori, favorirne la ripartenza dovrà essere un primario interesse pubblico.
Dalla cultura come forma di intrattenimento, alla cultura come potenza rigeneratrice, in queste settimane nuove reti solidali di produzione e distribuzione già si muovono in tal senso, sono giorni di proiezioni di film sui muri dei palazzi, di concerti, di live, si tratta di convogliare questa energia comunitaria in circuiti virtuosi da progettare. Parma2020, se saprà reinventarsi, trovando un modo per ricollocare e rigenerare quanto aveva programmato − istituendo ad esempio un fondo di solidarietà e di produzione a sostegno degli artisti per produrre nuove opere e micro progetti culturali diffusi − potrebbe ricoprire un ruolo fondamentale per non disperdere ma aggregare. Gli eventi non torneranno facilmente, rassegniamoci. Ora che tutto è sospeso, ora che il nostro rendimento produttivo si è fermato, la nostra vita professionale, la nostra vita sociale ed è fermo il vortice dell’eventismo, comprendiamo meglio il superfluo. Potevamo fare tutti meno, potevamo fare tutti meglio. In tutti i settori, cultura compresa, abbiamo creduto che il tanto, il grande quantitativo fosse sinonimo di vitalità. Ci sbagliavamo.
Da questa brutta esperienza forse torneremo a programmare a lungo termine. Servirà intelligenza creativa, spirito di aggregazione, logiche di merito, apertura a nuove proposte, ricambio generazionale. L’arte e la cultura sono principi fondamentali e irrinunciabili attraverso i quali, prima di rilanciare l’economia, aiutare e migliorare la nostra comprensione dei «pluralismi culturali e morali». Come ha scritto Sandro Bozzolo nel suo libro Un sindaco fuori dal comune: la democrazia partecipativa esiste, analizzando la singolare politica che ha rivoluzionato la capitale colombiana Bogotà, ovvero l’azione del sindaco filosofo Antanas Mockus e alla sua cultura cittadina: «Un buon governo deve incoraggiare gli altri a cambiare, essere disposto a mettersi in discussione, e accompagnare il cambiamento senza umiliazioni, cercando di capire i diversi punti di vista. A volte le parole cambiano il mondo, ma solo se gli altri sono pronti a comprenderle» (Mockus, un visionario con i piedi per terra/Micromega – 3 gennaio 2012).
Compito della politica che verrà sarà quello di canalizzare una società, che speriamo possa tornare attiva e reattiva ma proiettata verso modelli di sostenibilità. Vorrà dire incentivare e finanziare coloro i quali avranno voglia (come già sta largamente accadendo) di condividere conoscenze, tempo e strumenti al fine di rifondare quel che non ha funzionato. La cultura potrà essere un motore di energie, strumento attivo di cittadinanza, integrazione, apertura all’altro, confronto; liberata dalle logiche dell’evento, ne riscopreremo la necessità irrinunciabile, bene primario di una comunità, sempre, ogni anno, ogni mese, ogni giorno che verrà. Andrea Zanzotto diceva: «Oggi siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: che deve crescere sempre, non si sa perché. Procedendo così, la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole…». Ad aver ascoltato prima le parole dei poeti.