di Igor Micciola
Questa intervista dovevo farla mesi fa. Mi pare fosse giugno, quando un amico mi dice: “Ma perché non avete ancora parlato di Oltre Food? Quella è una cosa bellissima”. Figurati, non ne so niente, mi faccio spiegare per sommi capi e sì, concordo, in effetti dobbiamo parlarne. Nei giorni successivi scopro di non avere nessun diritto di cadere dalle nuvole: dopo un rapido giro di consulta, almeno in due mi dicono “Guarda che te l’ho detto anch’io, già quest’inverno”. Il punto è, al di là dei miei cedimenti neuronali, che in quartiere e nel giro Voladora, per così dire, sono in tanti a essere molto interessati a questo progetto, prima ancora che parta.
Eppure, nonostante abbia passato luglio e agosto maledicendo la mia memoria e ripromettendomi di chiamare chi di dovere per scrivere questo benedetto pezzo, non l’avrei ancora fatto se non fosse stato per l’Oltretorrente in Festa (sì, festa bellissima, zeppa di roba interessante, il ritorno dei Mr. Kilgore… neanche di quella abbiamo scritto: chiedo perdono, mea culpa). Lì, proprio sotto lo stand di Oltre Food, incontro Andrea Zini, un vecchio amico che non vedevo da anni. Ma ci sei tu dietro a sta cosa? Ancora più facile scrivere questo articolo. Una scusa in meno per il mio colpevole ritardo. «Beh, dai – mi dice Andrea – il negozio deve ancora aprire. Facciamo ancora in tempo».
Ecco, il negozio. Perché di questo si tratta.
«Detta così sembra che apriamo un’attività commerciale come un’altra: non è così, anche perché non siamo un’associazione a scopo di lucro. Forse è meglio partire dall’inizio. L’idea è di aprire un negozio con le stesse caratteristiche di un gruppo di acquisto solidale. Infatti, il progetto è nato da un gruppo di amici che facevano parte dello stesso Gas, il Pallacorda in Oltretorrente, un gruppo piccolo di circa 25 famiglie (si tende a farli piccoli a Parma, anche perché in questo modo si mantiene l’aspetto comunitario). Per quanto riguarda il mio nucleo familiare, potevamo rimanere tranquillamente in questa posizione. Poi, però, abbiamo pensato di fare un passo oltre, un’evoluzione dalla forma di Gas che potesse coinvolgere anche categorie diverse di nuclei famigliari».
Cosa vi ha fatto cambiare idea?
«Abbiamo conosciuto il modello della Food Coop di New York e quello de La Louve a Parigi, tramite una nostra amica. E ci siamo resi conto che questi negozi, molto grandi, riuscivano a fare la stessa cosa che si fa all’interno di un gruppo d’acquisto. Nel Gas facevamo gran parte delle nostre spese familiari ed eravamo molto soddisfatti perché, con un po’ di volume, si ha la possibilità di avere cose buone e prodotte bene a un prezzo accettabile: è solidale nei confronti della filiera, compreso te che sei in fondo. In più, crei una massa, un gruppo che fa acquisti orientati. È un tipo di organizzazione che, da un lato, sodisfa i tuoi bisogni ma, dall’altro, è più difficile da gestire per quei nuclei piccoli, che hanno meno disponibilità di spazio o di programmare gli acquisti nel medio termine (cioè da due fino a sei mesi). Non a caso nei Gas queste categorie sono statisticamente meno presenti».
Questo modello, quindi, ha il limite di essere vantaggioso solo per un certo tipo famiglia.
«Proprio per andare oltre questi limiti abbiamo pensato alla struttura del negozio, con orari di apertura normali per un esercizio commerciale, però a monte avrà lo stesso tipo di scelta che ti dà un Gas. Quello che bisogna fare per partecipare, quindi, è associarsi alla cooperativa, nella quale si decide tutti insieme gli acquisti da fare e a quali produttori rivolgersi. Nella nostra siamo circa novanta soci: chi tra questi ha la possibilità e vuole farlo, si inserisce all’interno di singoli gruppi di lavoro. Uno, per esempio, si occupa della ricerca sul territorio e del contatto con quei produttori che secondo noi hanno le caratteristiche giuste».
Quanti sono i produttori coinvolti nel vostro progetto e come li scegliete?
«Al momento siamo in contatto con un centinaio di aziende. Molti stanno rispondendo proprio in questi giorni a un nostro sondaggio in cui chiediamo, in vista dell’apertura, se sono disponibili a fornire in modo trasparente una serie di dati sulla loro produzione. E devo dire che sono tanti quelli ben contenti di farlo, perché le persone che lavorano bene non vedono l’ora di dimostrartelo. È un altro dei motivi per cui abbiamo deciso di rifornirci per lo più direttamente dai produttori e molto poco dai grossisti, che pure ci garantiscono di avere prodotti altrimenti più difficili da reperire. Ma una delle cose che ci interessano di più rimane avere dei rapporti diretti con i produttori locali».
Tu dici “le persone che lavorano bene”. Cosa significa per voi e che rapporto ha con il “biologico”?
«Noi scegliamo produttori che rispondono a determinati requisiti. Questi riguardano diversi aspetti, come le sostanze che usano nei processi (penso ai pesticidi, per dirne una), la regolarità contrattuale dei dipendenti, il trattamento degli animali, la sostenibilità ambientale (come il tipo di risorse energetiche impiegate nella produzione) e via discorrendo. Per noi non è affatto necessario che un produttore abbia pagato il percorso che porta alla certificazione del biologico, perché è evidente che per le imprese più piccole la certificazione rappresenta un costo che incide in modo diverso rispetto a quelle più grandi. Quindi, se nei fatti l’azienda in questione pratica un tipo di produzione che rispetta certi criteri, ed è disposto a dimostrarlo con la dovuta trasparenza, un Gas glielo può riconoscere, andando quindi oltre il bollino. Succede spesso. Nel nostro caso, molte delle aziende hanno anche la certificazione, l’una non esclude l’altra, anzi di frequente le due cose si affiancano».
Ma non è proprio questo genere di produzione che porta inevitabilmente a prezzi più alti?
«Fare un’agricoltura con metodi corretti e garantendo condizioni giuste a tutta la filiera, come pagare il giusto a chi lavora, ha dei costi che sono superiori a quelli che mediamente può praticare la Gdo. Quando si paga molto poco un prodotto, bisogna chiedersi perché. La risposta il più delle volte si trova in una catena di iniquità alle spalle di quel prodotto che colpisce in modo particolare il produttore. E, attenzione, per produttore in questo caso non intendo il padrone dell’azienda, ma chi lavora nel concreto, quindi anche i dipendenti di un’impresa. Nella Gdo si trovano anche prodotti, nonostante il certificato del biologico, che non hanno una garanzia di equità nel trattamento della terra, degli animali e delle persone. Se invece vuoi avere questo tipo di garanzia e, magari, intendi anche sostenere le produzioni locali, quelle cioè che con un certo impegno e spirito d’avventura stanno invertendo la tendenza all’abbandono delle campagne e dell’Appennino, devi mettere in conto la possibilità di pagare qualcosa di più rispetto ai prodotti che trovi in un supermercato, è vero. Ma non è detto».
Come no?
«Lo scarto di prezzo tra i due prodotti equivalenti, eppure realizzati in modi così differenti, è molto variabile. Prima devo sottolineare, però, che la cosa importante per noi è prenderci la libertà di un Gas: possiamo scegliere da chi comprare, se il suo prezzo ci sta bene o meno, perché può anche darsi che un prezzo più alto rispetto alla Gdo ci risulti comunque accettabile. In generale, quello che abbiamo in mente è una linea di equilibrio, non vogliamo diventare la “boutique” dei prodotti biologici ma puntiamo a mantenere una possibilità di accesso larga, popolare. L’obiettivo di fondo è questo. La sfida, quindi, sta nel riuscire a fissare prezzi concorrenziali a quelli della Gdo. E te lo garantisco: è possibile, basta guardare agli esempi di negozio a New York e Parigi che ti facevo prima. Dipende tutto da quanti soci avremo: se saremo abbastanza (nell’ordine delle centinaia) riusciremo a spendere una cifra grosso modo equivalente a quella che si spende per i propri bisogni in un supermercato. In cambio di prodotti decisamente migliori».
Questo è un aspetto che abbiamo trascurato, finora. Cioè, abbiamo parlato di qualità solo nei termini di una corretta produzione, che rispetti l’ambiente, gli animali e i lavoratori. La qualità, invece, che ti ritrovi nel piatto è davvero superiore?
«Ovviamente, questa è una cosa che potrà giudicare solo chi verrà a fare spesa da noi quando apriremo. Posso portare, però, la mia esperienza da puro consumatore, che a un certo punto ha fatto la scelta del Gas: quello che mangi è talmente buono, rispetto a quello che compri in un qualsiasi altro negozio, che ti ritrovi a chiederti “ma io cos’ho mangiato finora?”. Se ti abitui a mangiare la verdura che ha il sapore che dovrebbe e che cresce nel periodo giusto, dopo fai fatica a tornare al supermercato».
Prima parlavi della vostra volontà di creare una “massa”, un termine che di solito ha una sfumatura negativa. Che cosa intendi?
«Se vogliamo che il consumo critico non sia di nicchia, elitario e con costi esorbitanti, è necessario aumentare la massa critica, cioè il numero di persone che consuma in modo critico. Dobbiamo cercare di portare una fetta di consumo fuori dalle logiche della Gdo e della produzione capitalistica selvaggia. È più che fattibile ed è una cosa che infatti sta crescendo. Molte delle persone che ci sono dentro vogliono che la loro scelta si diffonda, non sono mossi da un desiderio di status, di immagine o di autogratificazione. Piuttosto, tengono a dei principi. Il numero dei coinvolti e anche delle categorie sociali si allarga: non può che essere un dato positivo. Infatti, non abbiamo concepito Oltre Food come un’evoluzione del Gas, come se il Gas non fosse più necessario, ma come una diversificazione dei canali. Possiamo dire che siamo come un gruppo d’acquisto con un negozio, con la stessa capacità di scelta che la Gdo non ti permetterà mai».
Non mi resta che chiederti a che punto siete dell’operazione.
«Al momento siamo nella fase dell’allestimento fisico del negozio. Il 26 giugno scorso abbiamo fondato la società e abbiamo preso in affitto un negozio qui in Oltretorrente, in borgo Santo Spirito, 44/a. Ora l’obiettivo principale è crescere nel tesseramento dei soci. A questo proposito, devo ricordare che la nostra è una cooperativa, quindi richiede una quota sociale, cioè l’acquisto di una parte della proprietà della coop. Noi abbiamo scelto di fissare questa quota a una cifra, 75 euro, che è lievemente più bassa delle altre food coop in giro per l’Europa, perché vogliamo che non sia un ostacolo per nessuno. Con il pagamento della quota si accede al diritto di fare la spesa nel negozio, da una parte, e dall’altra ci si impegna a offrire la propria disponibilità a incarichi, tra loro anche molto diversi, per circa tre ore al mese. Si parla di lavori che vanno dal caricare gli scaffali fino alla gestione delle bolle o la grafica per i volantini. Per noi sono incarichi che hanno la stessa dignità, com’è ovvio che sia, e non facciamo differenze di peso tra le mansioni. E ognuno è liberissimo di scegliere la mansione che preferisce. Detto questo è anche vero che ci sarà almeno un socio lavoratore, cioè almeno uno dei soci sarà a tempo pieno nel negozio. Essendo un negozio piccolo, per il momento si è pensato a una figura soltanto, anche perché gli altri soci comunque daranno una mano. Inoltre, chiaramente, chi lavorerà all’interno del negozio avrà una copertura assicurativa».
Ma come avviene l’organizzazione di un negozio con apertura giornaliera, come quella di un esercizio commerciale qualsiasi, se ognuno può scegliere di fare quello che più gli piace?
«È un aspetto interessante che all’inizio ha colpito molto anche me. Tutti siamo abituati a pensare all’organizzazione del lavoro, anche dal punto di vista della ricerca e delle sperimentazioni, all’interno del modello dell’impresa capitalistica. È molto meno documentato, ma non meno significativo, il lavoro che è stato fatto sulla gestione diretta. Siamo andati a visitare diverse esperienze di questo tipo, a New York per esempio (e lì ce ne sono moltissime), ma ne abbiamo viste tante anche in Europa. I loro modi organizzativi sono affascinanti: l’autogestione è completamente diversa rispetto a all’impresa, eppure funziona, sulla base di un modus che riesce a darsi autonomamente. Il tutto senza padroni. Io non do per certo che riusciremo a fare altrettanto, però vale la pena provarci».
Che tipo di prodotti si troveranno all’interno?
«Dobbiamo ancora decidere se iniziare fin da subito con un assortimento di frutta, verdura, latticini e in generale i prodotti più deperibili, che hanno bisogno di una cura maggiore. Ma sicuramente partiremo con dei prodotti alimentari confezionati e sfusi. Per sfusi, in particolare, intendo quegli alimenti che puoi comprare “alla spina”, come pasta, riso e cereali vari: riempi il contenitore che hai voluto riciclare e di cui magari conosci la capacità in peso. Come faceva ai tempi in negozio mia nonna, che riempiva i sacchetti di carta con la paletta, per intenderci. Questo è un aspetto importante, perché è davvero assurda la quantità di imballaggi che usiamo quotidianamente per niente. Basta pensare a un prodotto qualsiasi come una fetta minuscola di gorgonzola. Per 100 grammi di formaggio, ti ritrovi con una pellicola di alluminio che lo ricopre da un lato, una velina di plastica che lo avvolge e, non contenti, la scatola di plastica che lo accoglie. Così vai a casa con una confezione che forse pesa più del formaggio. Però, in questo modo si presenta bene… no? È un fenomeno per me semplicemente mostruoso, il ricorso massiccio alla plastica è una sorta di degenerazione della specie».
Lo sai, vero, che tutto quello che dici ha un potenziale politico notevole?
«Non sono mai stato convinto che il consumo critico sia la risposta a tutti i problemi o che abbia, in sé, la possibilità di scardinare i meccanismi fondamentali del modello economico in cui viviamo. Più semplicemente è una risposta a una domanda, molto banale. E cioè, che io sia o meno un militante politico che cerca di cambiare l’esistente, poco importa: in ogni caso non posso fare a meno di essere un consumatore. Quindi, che tipo di consumatore voglio essere? La risposta del consumo critico avvicina il personale al politico. Da una parte sono convinto che il consumo che uno sceglie rimane nella sfera personale dell’individuo e quindi consumare non è fare politica. Dall’altra, preferisco che il mio consumo sia conforme alle mie idee e non contrario, o almeno che le due corrispondano un po’ di più. Non voglio arrivare all’ideologia del “consumerismo”, cioè l’idea che tale scelta possa cambiare il modo di produzione o l’assetto sociale. Però, è innegabile che sia un contributo nella giusta direzione e questo mi sembra importantissimo».