da Potere al Popolo Parma
Un giro d’affari da uno 1,7 miliardi, 50mila addetti in tutta la filiera, uno dei prodotti industriali su cui si basa l’economia della nostra città, e non solo. Ecco il prosciutto di Parma, la costruzione della “Food Valley” passa per le cosce stagionate a Langhirano e dintorni. Ma da qualche mese il suo futuro è incerto e nelle sedi competenti se ne discute con preoccupazione: lo scandalo sulla genetica suina, vera e propria truffa milionaria, ha aperto uno squarcio su una realtà produttiva che viene cantata più che descritta. Talmente cantata che, a dispetto delle sue dimensioni catastrofiche, in città il problema è passato quasi sotto silenzio.
A Parma, infatti, è impossibile parlare di quello che realmente accade dentro i salumifici della pedemontana: qualsiasi critica è lesa maestà. Un atteggiamento che ha portato la Gazzetta di Parma a dare solo lo spazio di un francobollo, e addirittura a pagina 23, alla notizia di un esposto in procura per riduzione in schiavitù, presentato dalla Flai CGIL nel 2012. E questo è solo un esempio. Il giornale più letto della provincia ha conservato una linea di silenzio imbarazzante su tutta la vicenda, anche se questa ha portato a un vero e proprio terremoto nel Consorzio della Corona negli ultimi mesi. Nessuno deve sapere, per non danneggiare l’immagine di un prodotto di eccellenza. Si sa, a Parma è importante fare bella figura. E allora ai lettori della Gazzetta non rimane che il sapore dolce delle pubblicità patinate in onda sulle tv: “È arrivato il Marinooo”.
La realtà, nel frattempo, rimane lontana. Come si lavora, chi ci lavora, quali sono i problemi di un settore simbolo dell’economia del nostro territorio? Non è importante. Eppure, di cose interessanti da dire ce ne sarebbero, se si volesse approfondire. Il ruolo dei macelli e della grande distribuzione nell’abbassamento della qualità è soltanto la punta dell’iceberg di una questione ben più grave. La pressione dei mercati internazionali sulla filiera produttiva locale non solo sta deteriorando la qualità del prosciutto, ma sta distruggendo le condizioni lavorative, in una spirale discendente che sembra non avere fine. La situazione lavorativa del comparto carni in Italia, al di là delle pubblicità e della retorica sul Food, è drammatica, come dimostrano i casi della Castelfrigo e di ItalPizza, solo per citarne alcune a noi vicine.
ItalPizza? Castelfrigo? I lettori della Gazzetta difficilmente conosceranno questi nomi. Non sono notizie importanti. Si perdono tra ettari di articoli di cronaca, meglio se conditi con la presenza di qualche uomo nero. In estate, poi, per colmare i vuoti di notizie vanno bene anche baby gang di dodicenni che assediano parrocchie in periferia: signora mia, dove andremo a finire? A queste “notizie”, se davvero possiamo chiamarle così, si accompagnano immancabili i censori da tastiera, che invocano taser, manganelli e maniere forti. Commenti come se ne leggono tanti, troppi, stuzzicati da media guardoni e attenti ai click.
Questo, però, non vuole essere l’ennesimo articolo complottaro, non vogliamo proporre la visione di un burattinaio che decide cosa mettere e cosa no sui giornali. No, non è così ed è molto peggio. Stiamo parlando di una convergenza di piccoli interessi che contribuiscono ad alimentare paura, rabbia e incertezza del futuro, mentre i problemi sociali, quelli veri alla base di questo “sentire”, continuano a essere affrontati solo in superficie.
Tra questi piccoli interessi c’è quello di vendere due copie in più del giornale e, per riuscirci, risulta comodo inserire ogni dissonanza in un racconto in cui i bei tempi andati sono finiti. Bei tempi andati che, in realtà, non sono mai esistiti. Ce lo dicono anche le statistiche, se la memoria ci inganna: a Parma, in Italia e in ancora più in generale nel mondo “occidentale”, dagli Novanta a oggi c’è stato un calo di tutti i reati di sangue e predatori. Ma “la ggente” si sente più insicura. Quindi, la politica e le istituzioni agiscono sulla sicurezza “percepita”, ossia con operazioni di facciata per farci sentire più sicuri. Che poi queste operazioni non abbiano effetto reale sui problemi, poco importa. L’importante è accumulare un po’ di like sui social network e osservare il gradimento sui sondaggi in vista della prossima tornata elettorale. Così, ci ritroviamo con uno spiegamento di forze dell’ordine davanti a una parrocchia per combattere dei dodicenni maleducati, mentre le infiltrazioni di ‘ndrangheta e camorra sul tessuto produttivo del territorio rimangono lontane, sullo sfondo. Un problema poco percepito, evidentemente. Oppure le cui conseguenze sono raccontate in un modo da non essere viste come minacce.
Anche tra i prosciuttifici, avvolte nel silenzio protettivo dei media locali, si aggirano finte cooperative che, con metodi da caporalato anni Cinquanta, gestiscono una manodopera semi-schiavizzata. La stessa che permette di avere sui banconi dei supermercati il prosciutto a prezzi accessibili per i nostri stipendi sempre più bassi e rosicchiati. Finte cooperative spesso vicine alla criminalità organizzata. Ma non diciamolo. Tuteliamo il marchio. Poco importa se la concorrenza spietata metta in ginocchio quei piccoli prosciuttifici che, invece, hanno fatto scelte diverse e che si ostinano a offrire un lavoro dignitoso, oltre a un prodotto di qualità superiore. Il silenzio dei prosciutti è sacro, quasi come la messa.