di A. F.
Se qualcuno fosse passato da piazzale Pablo in questi giorni si sarebbe chiesto “ma che succede?”. Davanti alla chiesa, infatti, avrebbe visto una gazzella dei carabinieri e magari il giorno dopo, ripassando, sarebbe stato colpito nel vedere alcune volanti della polizia presidiare il sagrato. Ma che ci fanno qui? Minacce terroristiche? Operazione anti-spaccio? Niente di tutto questo.
Più semplicemente, il parroco ha denunciato nei giorni scorsi una situazione per lui difficile. Un gruppo di ragazzi da tempo prende di mira lui e alcuni fedeli: bestemmie, sputi, un giro in bici all’interno della chiesa e persino le gomme della sua auto danneggiate. Una “palla” che la Gazzetta di Parma ha preso subito al balzo, con la consueta aggiunta di drammaticità. “Piazzale Pablo ostaggio delle baby gang” titolava qualche giorno fa, con tanto di foto di alcuni bambini che giocano nel piazzale. E, il giorno seguente, ancora a scrivere sulla pericolosa banda. Questa volta corredata da una foto ancor più esplicita, tre bambini di cui uno intento a scavalcare una recinzione della chiesa (forse per recuperare un pallone?).
Ma davvero il piazzale è diventato pericoloso e prigioniero delle prepotenze di una baby gang? Io nel piazzale ci passo spesso, lo vivo e devo dire che non ho mai percepito un clima di paura. Anzi, spesso mi solleva il morale vedere tanti bambini giocare all’aperto nella piazza principale del loro quartiere. Un’immagine così lontana dallo stereotipo dei nuovi giovani “murati” davanti a uno schermo, per riprendere il più classico dei rimproveri. Ovvio che, poi, se i ragazzi escono dal mondo virtuale, il pacchetto è all inclusive, tutto compreso: anche i problemi legati alla convivenza in una comunità. Tocca stabilire un rapporto con le nuove generazioni.
Un passaggio che evidentemente è mancato, almeno in parte. Leggendo tra i commenti e le prese di posizione più disparate, si scopre una serie di critiche nei confronti del Don fatte da alcuni credenti e abitanti del quartiere. La chiesa e l’oratorio spesso sono chiusi e i locali della parrocchia vengono negati a chi propone attività aggregative. Altra pagina è quella di chi invoca il bastone per questi monelli, con rimando a quel piccolo mondo antico in cui tutto filava liscio a suon di schiaffoni e calci in culo. Eppure, io ricordo i racconti di guerre tra i ragazzi dei borghi del naviglio degli anni Sessanta: barricate, lanci di sassi, botte da orbi, mi si raccontava da bambino, tra le risate dei parenti più grandi. E senza andare troppo indietro, le bande degli anni Ottanta e la molotov sul comando dei vigili urbani, per non parlare dell’eroina. E ancora, quando ero solo un ragazzino, negli anni Novanta e i primi Duemila, certe zone era meglio evitarle: lì c’è la cumpa di tal dei tali che se gli gira male ti riempie di botte, così per diletto.
Non voglio dire certo che è tutto a posto ma che ogni epoca ha i suoi problemi e le sue contraddizioni. È anche nei conflitti che gli individui hanno la possibilità di crescere e imparare. Affrontare queste situazioni con le volanti di polizia, i titoloni allarmanti o i calci nel culo mi sembra il modo migliore per relegare questi giovani all’esclusione, finendo magari con lo svuotare il piazzale sia dei bravi che dei “cattivi”. Ma, forse, è proprio questo che vuole qualche benpensante e qualche bottegaio poco illuminato, una piazza vuota e silenziosa. Per fortuna una voce fuori dal coro in quartiere esiste e sta cercando di proporre un dialogo con questi ragazzi. Sì, perché in tutto questo fluire di opinioni manca una voce, quella dei protagonisti di questa storia. Non è il dialogo la strada migliore per trasformare la loro energia, espressa negativamente, in qualcosa di positivo?