La grande balena spiaggiata

di Francesco Antuofermo

Foto: Marco Vasini (parma.repubblica.it)

“Ero rigido e freddo; ero un ponte gettato sopra un abisso.” Franz Kafka (1883-1924), Il ponte

Il piacere e il bisogno di circolazione da uno spazio all’altro sono sempre stati tra le esigenze più pressanti dell’uomo. Per questo, costruire vie di comunicazione che permettano di superare gli ostacoli, diventa ben presto un’attività di carattere strategico per ogni civiltà e per ogni paese. Parma è bagnata oltre che dal suo torrente omonimo, anche dal Baganza e da altri canali e i ponti che permettono di attraversarli rappresentano importanti infrastrutture sia di collegamento viario che sociale: esaltano i punti di contatto tra i quartieri e formano l’apparato osseo che regge l’insieme della comunità.

Non possiamo quindi che essere soddisfatti del numero di ponti che sono a disposizione dei parmigiani e della loro esigenza di mobilità. La stessa soddisfazione che si ebbe dieci anni fa, quando la giunta Ubaldi approvò il progetto del nuovo ponte Nord di Vittorio Guasti, architetto, senatore di Forza Italia e capogruppo di maggioranza in Consiglio Comunale negli anni in cui in città, appalti e finanziamenti facili erano favoriti anche dalla presenza nel governo Berlusconi del potente ministro parmigiano Pietro Lunardi. Fu allora che il nuovo ponte, che qualcuno chiama anche ponte Europa, improvvisamente diventò un’opera imprescindibile anche in seguito all’assegnazione della sede dell’Efsa alla nostra città.

In verità già allora c’era chi sosteneva che il ponte non fosse proprio così necessario: in fondo collega due arterie, strada Europa e viale Piacenza già sufficientemente dotate di attraversamenti alternativi e in grado di smaltire il traffico veicolare. Ma tant’è: Parma allora era stata denominata “città cantiere”. Le mani della borghesia del cemento tenevano stretto il collo della giunta comunale e la ricchezza della città veniva trasfusa copiosa nelle loro vene. La banda del buco, Pizzarotti, Lunardi & co., fantasticava sulla costruzione della metropolitana. Gru immense disegnavano la città come tante torri Eiffel e tutte le idee che permettevano l’assorbimento di denaro pubblico venivano salutate dalla stampa locale, naturalmente al soldo dell’Unione Industriali, con generale entusiasmo. È in questo clima che nasce il Ponte Nord: 25 milioni di euro di costo. Uno sproposito, uno scempio, un furto di ricchezza sociale senza precedenti per Parma. Una somma colossale servita non tanto per costruire la campata di attraversamento del torrente, ma per realizzare una non ben precisata struttura coperta, da destinare ad attività di vario genere siano esse commerciali o pubbliche.

Il risultato dell’abuso edilizio realizzato in barba alla legge che vieta la costruzione di strutture abitative o commerciali sui ponti, diventò ben presto il simbolo dello sperpero di denaro pubblico. Ad inaugurarlo fu, ironia del nome, l’altro Pizzarotti, il sindaco, che tra le polemiche sostenne allora che: “Ormai il ponte esiste e non posso certo farlo saltare in aria dopo tutto quello che è costato”. Da anni, quindi, “la grande balena spiaggiata”, come è stata battezzata da un attento commentatore, giace lì immobile, in lento e costante deterioramento che la ruggine, l’incuria e il mancato utilizzo potrebbero portare ben presto alla putrefazione.

“Il ponte che voleva essere il simbolo di una città in marcia, in movimento, che doveva rilanciare il prestigio ducale è diventato l’emblema di un fallimento, dell’incapacità della comunità di affrontare la questione” ha detto Francesco Puma, dell’ateneo di Parma, tracciando un rapido inquadramento dell’opera pubblica, una “balena” che appartiene alla specie rara dei ponti abitati e alla sottospecie di quelli coperti.”

Per la verità molti si sono offerti con idee e progetti per scongiurare questo rischio. Tutti miseramente naufragati. L’ultima in ordine di tempo è stata l’idea di assegnare all’Aipo, l’agenzia addetta al controllo del fiume Po, la gestione del ponte e utilizzare “la creatura nata nera”, il “relitto”, per spostare lì gli impiegati degli uffici di via Garibaldi. Ma niente. Le autorizzazioni all’uso devono ancora arrivare. La deroga alla legge non è stata acquisita e per ora il mostro – che qualcuno ha proposto addirittura di demolire – deve rimanere vuoto, inutile, narcotizzato, deserto, chiuso a tutta la cittadinanza a testimoniare la vacuità di una città incapace di porre rimedio alle malefatte della parte più avida dei suoi cittadini.

Ma poi improvvisamente arriva inaspettato il colpo di genio. Qualcuno ha avuto un’idea brillante, pratica, per certi versi banale e priva di costi: perché non utilizzare la struttura come riparo per la notte? Non ci è voluto molto. Diversi senzatetto, persone povere, mendicanti, i cosiddetti invisibili o come ama dire l’assessora al welfare Laura Rossi, gli “irregolari”, hanno risolto il rebus di cosa fare della “grande balena spiaggiata”: utilizzarla per i propri giacigli, posizionati nei pressi della vetrata che si affaccia sul torrente. Così almeno una funzione il ponte l’acquisisce: dare un po’ di conforto a chi si trova in difficoltà. Del resto già in passato i ponti sono stati utilizzati dai dimenticati della società per dormirci di sotto. Ma ora, evidentemente, la crescita quantitativa dello sviluppo economico della società dei profitti può permettersi un salto qualitativo: anziché farli dormire sotto il ponte si può concedere il lusso di farli dormire sopra. È questo il massimo delle risorse che il nostro sistema può riservare agli irriducibili della povertà. Si sta meglio in alto che in basso e, oltretutto, la struttura offre un riparo maggiore dalle intemperie di stagione. La fantasia di queste persone ha fatto il resto: i giacigli sono diventati ben presto piccoli rifugi, accampamenti colorati, luogo di incontro di culture diverse, dove individui di varie nazionalità si sono uniti nella necessità quotidiana di sopravvivere. Un’idea geniale: renderlo un rifugio quanto meno restituisce alla struttura la sua antica vocazione in quanto ponte: al servizio dell’uomo. Nient’altro che un semplice gesto di buon senso.

La città dovrebbe mobilitarsi a favore di queste persone che in poco tempo hanno risolto l’annoso problema del “cosa fare del ponte Nord”, magari donando loro il riconoscimento del premio di Sant’Ilario. E invece? La nostra giunta manda la forza pubblica e ordina lo sgombero. “E’ un problema di decoro urbano”, sollecitano gli assessori di competenza. Così, il nostro Sindaco ha perso una grande occasione. Quella di compiere il passo successivo, quello decisivo, all’uso sensato del ponte Nord: dopo il passaggio da sotto a sopra, avrebbe potuto aprire la struttura e garantire il ricovero di queste persone dentro il ponte.

Una decisione che sarebbe stata straordinaria e rivoluzionaria che avrebbe sicuramente inondato la sua figura di notorietà e di prestigio. Per dirla con Kafka avrebbe potuto essere lui “il ponte gettato sopra un abisso”, ma si è dimostrato invece, solo “rigido e freddo”. Così l’occasione è andata perduta. Si possono gettare al vento milioni di euro di ricchezza senza pagare nulla in termini di responsabilità, ma non si può cercare un riparo per la notte sotto le vetrate di una struttura abbandonata. Il collegamento tra l’”abisso” dello spreco e la necessità del riuso, che il ponte “rigido e freddo” avrebbe potuto garantire, è crollato miseramente sotto il peso dell’incompetenza e della brama di profitti. Era successo così anche per il ponte Morandi a Genova.