Parma e il giornalismo da casa

di Marco Severo

Come una scintilla balzata fuori da un esperimento d’un futuro ancora troppo lontano, nel 2010, a Parma, un oggetto non identificato solcò l’orizzonte del sistema mediatico. Ne fu testimone un gruppo di giovani e sgomenti giornalisti, per intenderci quel tipo di giornalisti che il giorno in cui dissero “da grande voglio lavorare in un giornale” pensavano a un giornale venduto in edicola e fatto dentro una redazione dove magari – per chi era cresciuto con i film americani – i cronisti tenevano le gambe lunghe sulla scrivania, una tazza di caffè in pugno e la cornetta del telefono tra spalla e orecchio. Solo che loro no. Per loro non erano previste gambe sulla scrivania, né tazze di caffè o cornette alla Robert Redford-Dustin Hoffman.

E questo perché loro lavoravano per un giornale online, che – ormai lo abbiamo capito – è cosa piuttosto diversa da un cartaceo. Ma soprattutto perché nell’estate 2010 avevano appena saputo che l’edizione parmigiana di Repubblica.it avrebbe fatto a meno della redazione. Perlomeno della redazione come luogo fisico, stanze comuni, gente che va e viene, quello che scrive e quell’altro che legge (le gambe lunghe sulla scrivania). La decisione fu presa dall’editore sulla base di varie considerazioni, che sarebbe lungo ora spiegare. Ad ogni modo si era di fronte al primo caso del genere tra i grandi giornali, forse al primo caso in assoluto, ad un oggetto non identificato appunto. Da allora in avanti l’edizione parmigiana di Repubblica.it i giovani e sgomenti giornalisti l’avrebbero fatta da casa. Senza vedersi.

Oggi sappiamo. Dieci anni dopo, l’acceleratore epocale Covid-19 oltre a imporre drammatiche precauzioni ha affermato urgentemente costumi sociali che fino a poco tempo fa aspettavano nel garage dei prototipi. Per cui in tanti abbiamo fatto esperienza dell’home working, il lavoro da casa o telelavoro: insegnanti, alunni di quegli insegnanti, genitori degli alunni di quegli insegnanti, dipendenti di imprese d’ogni genere, professionisti. Tutti come, allora, i giornalisti di Repubblica Parma. Abbiamo contaminato il dentro con il fuori, la voce del collega in casa nostra, la maestra che conosce la cameretta dell’alunno. Abbiamo sommato le nostre individualità per comporre un simulacro relazionale, una strana sintonia fatta di indirizzi web, telecamere, sfondi da sistemare (almeno i primi giorni, poi pazienza).

Hanno fatto esperienza di questo diverso modo di fare squadra, appunto, anche loro, i giornalisti. Praticamente tutte le redazioni di grandi e piccoli giornali, tv e radio hanno ripercorso la scia di quella prima scintilla piovuta su Parma nel 2010 e hanno messo in moto la macchina del futuro. Ciascuno da casa propria. Riunioni web. Messaggistica. Chat ufficiale e sottochat.

Che sia effettivamente una macchina del futuro però è da vedere. Davvero il giornalismo, definito scolasticamente come “prodotto dell’ingegno collettivo”, potrà fare a meno del collettivo, in particolare del collettivo in presenza? Qualcuno sembra crederci, come la proprietà del famoso tabloid newyorkese Daily News, che – racconta il New York Times – ha annunciato la chiusura della redazione di Manhattan. “Abbiamo stabilito che non abbiamo bisogno di riaprire questo ufficio per mantenere le nostre attuali operazioni”, ha comunicato Tribune Publishing, l’editrice del Daily News: “Con questo annuncio, stiamo anche iniziando a esaminare opportunità strategiche e alternative per l’occupazione futura”.

In Italia il dibattito tra gli addetti ai lavori (di informazione parlano solo e sempre gli addetti ai lavori) è iniziato. Per un giornalismo già in crisi di identità e di soldi (ecco i numeri dei quotidiani italiani a giugno ed ecco ciò che è successo per la prima volta al New York Times), la rinuncia alle redazioni fisiche, voci di bilancio che pesano sui conti delle imprese editoriali, potrebbe essere l’ultima tentazione dopo l’assottigliamento estremo dei compensi per i collaboratori esterni. Si è parlato per esempio nelle settimane scorse di una presunta idea della proprietà de Il Messaggero di rivedere l’uso della redazione centrale.

Sul tema dell’home working nel giornalismo, Articolo21.org ha scritto che dopo l’epidemia da coronavirus “nulla sarà più come prima: lo dicono tutti e poiché anche il giornalismo risulterà anch’esso cambiato bisogna cominciare a rifletterci. Quello che è successo avrà conseguenze non da poco”. Secondo Alessandra Costante, della Federazione nazionale della stampa, il sindacato dei giornalisti italiani, ci sono molti “colleghi che vorrebbero continuare a lavorare in questa modalità anche terminata l’emergenza”. La sindacalista fa notare che gli editori “nello stesso periodo si sono resi conto che il giornale può essere fatto con meno persone in redazione […] il risparmio è a portata di mano”. Il punto è che tale risparmio, si teme, potrebbe ripercuotersi sulla stessa retribuzione dei giornalisti. Più comodi, a casa loro e dunque meno pagati.

Questo per esempio non accadde a Repubblica Parma, dove i compensi – per quanto in genere non invidiabili – vennero confermati e anzi in parte aumentati dopo la chiusura della redazione fisica. Semmai i pericoli connessi alla prospettiva del “tutti a casa” sono altri, e sono principalmente due. Uno è d’ordine occupazionale, l’altro è legato alla qualità del lavoro dei giornalisti e, quindi, dell’informazione e, quindi, alla qualità della vita civile se è vero che l’informazione, soprattutto oggi con la concorrenza e la complicità con i social network, regola l’umore di una nazione e anche di più, definisce i luoghi mentali e i tic di una comunità.

Il primo pericolo riguarda la riduzione ulteriore degli spazi contrattuali per i precari. I giornali saranno fatti da un numero sempre più ristretto di giornalisti, più di prima. Dunque si ridurranno le opportunità di assunzione per chi aspetta da anni. Punto primo. Punto secondo: da casa significa fuori, esterno, lontano. È sufficiente un ufficio desk, una decina di persone per comporre una redazione centrale: tutti gli altri via, che c’entrano, basta che scrivano il loro pezzo, cosa vogliono? Alla larga! Si rischia cioè una riformulazione strutturale dell’organizzazione del lavoro sulla falsariga del rapporto che esiste oggi fra giornale e collaboratori non assunti: pochi, pochissimi “veri” giornalisti e tanti galoppini che mandano gli articoli e non partecipano alla costruzione del giornale (che, si diceva, era un tempo definito come prodotto dell’ingegno collettivo).

E appunto ecco il secondo pericolo, il maggiore: la solitudine del giornalista home worker, il suo dialogo umorale con le pareti di casa, lo sguardo che vaga tra i peluche della figlia, la risposta al citofono, magari il pane da andare a prendere già che sei a casa. E l’aspirapolvere? Per favore mi passi anche l’aspirapolvere. Può essere confortevole, comodo: ma che noia! Il giornalista non dovrebbe stare con i suoi ristagni mentali ma con la gente, con i colleghi in prima battuta. L’immagine romantica del capannello di cronisti alla bolla dell’acqua o alla macchina del caffè aveva (ha) un significato in rapporto al prodotto finale, alla qualità del giornale che si manda in stampa, del servizio radio-tv che andrà in onda, della homepage di un online. Parlare, parlare senza intermediazioni (chat e videochiamate), ragionare insieme, darsi di gomito, incazzarsi, riconoscere che un’idea è buona e un’altra idea invece è una minchiata sono cose che si potrebbe – con la storia dell’home working – non fare più. Potrebbe di conseguenza venirne fuori un giornalismo collage: un quotidiano, addirittura un telegiornale o un radiogiornale, oppure un sito online composti per aggregazione di contributi personali più che per selezione e composizione ragionata delle notizie. Qualcosa di più somigliante a un blog collettivo che a un manufatto risultato di mediazione e confronto costante. Dacché verrebbe meno una delle funzioni fondamentali – oggi più di prima – del sistema mediatico, ossia la funzione di guida nel disordine delle notizie, insomma la sintesi dei significati, la cernita e il tentativo, almeno, di comprendere le cose.

A Parma, nel punto d’impatto di quella scintilla precoce di futuro, nel 2010, in via Bixio angolo via Costituente, ex palazzo teatro Ducale, sede dal 2008 della redazione locale di Repubblica.it, si raccolsero i pochi effetti personali e ognuno si cercò un altro posto dove stare, sul divano di casa, al bar, da amici, al parco. Il gruppo di giovani e sgomenti giornalisti prese a comunicare via Messenger, sms, email: le chat WathsApp non erano diffuse. Fare i pionieri non è facile. Passavano le ore a scarrellare i siti dei giornali e le agenzie, a scrivere, a seguire conferenze stampa, in motorino a girare la città, a parlare con tizi strani, appena possibile a farsi gli affari propri. Da soli a fare squadra.

Tra loro non si capivano sempre sempre. “Dove sei?”, “cosa fai?”, “perché non rispondi al telefono?”, “ti avevo chiesto di verificare”, “ah scusa non avevo sentito”. Proponevano idee, qualche volta idee buone, spesso fesserie tanto per dimostrare che si stava sul pezzo, non si rubava la retribuzione. C’era questo paradosso del dover timbrare un simbolico e immaginario cartellino, del non farsi trovare ai fornelli con la pasta da assaggiare mentre il telefonino squillava. La macchina del futuro, edizione online e fatta da remoto, mischiava lavoro e privato di continuo. Che poi forse è tipico del mestiere del giornalista, ma alla lunga, nel caso del prototipo parmigiano, diventava dispersivo sul piano della resa e dell’orizzonte professionale. Per dire: da chi si impara se si sta da soli?

Peraltro, sorte beffarda, i fatti qui raccontati avvenivano più o meno negli stessi mesi in cui Repubblica.it lanciava la rubrica “entra con noi in redazione”, il video quotidiano della riunione pomeridiana dell’ufficio centrale. Il lettore poteva “entrare” in redazione. Almeno lui.

Qualcuno dei giovani e sgomenti giornalisti, invece, anche per tutte queste circostanze smise di fare il giornalista. E oggi, per non dimenticare i film americani, allunga le gambe sulla scrivania di casa sua.

 

 

 

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