Indice di uguaglianza o di disuguaglianza di genere?

di Elisabetta Salvini

Sono otto i parametri attraverso i quali l’EGEI (European Union Gender Equality Index) costruisce l’indice sull’uguaglianza di genere. Uno strumento che serve a monitorare le differenze di genere, i cambiamenti ad esso relativi nel corso del tempo e i progressi raggiunti nel corso degli anni. Tale indice, dunque ci fornisce una mappa complessiva dei divari di genere ancora presenti nell’UE e negli Stati membri. Perché, anche se pensiamo di essere uguali, uguali, ancora, non lo siamo per niente.

Va precisato fin da ora che questi dati sono frutto di una ricerca che presenta una complessità ben diversa da quella che comunemente una certa stampa paternalista e sessista, vorrebbe riassumere e banalizzare in una sorta di lotta tra i sessi. Essi, al contrario, servono per evidenziare come nella nostra società, che si vanta di aver fatto propri i principi delle pari opportunità, persistano ancora profonde condizioni di disparità, di discriminazione e di violenza.

Tra gli otto parametri presi in esame dall’Eige ci sono l’equa condivisione del lavoro retribuito, del potere decisionale, della conoscenza e del tempo. A questi si sommano poi il denaro, la salute, la violenza contro le donne. Caratteristica di questa terza edizione è l’approccio intersezionale, che mostra come l’essere donna o uomo si intersechi con l’età, l’istruzione, la composizione familiare e la condizione di genitore, il paese di nascita o la disabilità.  

L’intreccio dei dati raccolti sulla base di tali fattori, oltre a servire per definire una classifica a punti – che di per sé potrebbe anche lasciare il tempo che trova – serve però a rappresentare in cifre un Paese che tuttora fatica a raggiungere un livello soddisfacente in fatto di uguaglianza di genere. L’Italia, infatti, si trova al quattordicesimo posto, sotto di 4,4 punti percentuale rispetto al resto alla media europea. Niente di cui stupirci, in un Paese in cui ancora le donne paiono arrancare nel tentativo di raggiungere una parità che è lontana. Molto lontana.

Nonostante nel 2015 sia stato adottato lo “Strategic Engagement for Gender Equality 2016-2019”, un documento in cui sono state indicate le priorità perseguite quali: la partecipazione al mondo del lavoro e l’indipendenza economica femminile; la riduzione del “pay gap” e della povertà femminile; l’uguaglianza tra i sessi a livello di “decision-making”; il contrasto alla violenza di genere e la promozione dell’uguaglianza di genere a livello globale e nelle relazioni esterne dell’UE, la crescita dell’Unione europea – e in particolare quella italiana – va assai a rilento.

Sebbene in ambito dell’accesso alla conoscenza e della salute si siano registrati alcuni valori di crescita positiva, preoccupano tuttavia quei settori in cui persiste una forte disparità. In particolare l’attenzione deve essere rivolta al lavoro, in assoluto il settore dove l’Italia mostra il suo peggior indice rispetto all’Unione. Il tasso occupazionale femminile, fermo al 53% (rispetto al 73% maschile) pone l’Italia come fanalino di coda dell’intera comunità.

Non solo le donne italiane sono meno occupate rispetto agli uomini, ma sono anche peggio retribuite. Il gender pay gap in Italia si aggira, in media, attorno al 18% e sale fino al 30% per le lavoratrici sposate e con figli. Tradotto in parole più semplici significa che, rispetto ad un collega uomo, una lavoratrice solitamente lavora gratuitamente per più di due mesi l’anno. E significa anche che le tante battaglie fatte sinora hanno contribuito ad una legislazione favorevole che stenta però a tradursi in fatti concreti. Nessuna vittoria, dunque, ma piuttosto tanta strada ancora da percorrere per poter garantire anche alle donne italiane stipendi e retribuzioni pari a quelle dei colleghi uomini.

Intrecciando ulteriormente i dati la quotidianità femminile si mostra nella sua complessità, fatta di una gestione dei tempi di vita e di quelli lavorativi sempre più concitata e difficile. Nulla di nuovo, certo. Sebbene da decenni si parli di conciliazione e di redistribuzione del lavoro di cura, ancora leggiamo che “le donne hanno una probabilità quattro volte maggiore (81%) rispetto agli uomini (20%) di trascorrere del tempo cucinando e facendo i lavori di casa ogni giorno per almeno un’ora”.

Le donne sono meno occupate, meno pagate, più oberate dai lavori di cura e domestici che in questi ultimi anni – complice la crisi economica – ricadono ancora di più su di loro e sono anche maggiormente a rischio di vulnerabilità sociale e povertà, specie se single o separate.

I dati relativi alla violenza di genere, al momento calcolati sulla base di riferimenti relativi al 2016, non fanno che peggiorare la situazione. Essi ci parlano di 76 femminicidi compiuti direttamente dai partner delle vittime ai quali dovremmo sommare il numero di donne uccise dai familiari, dato però non disponibile. Esiste in questo caso un problema relativo alla raccolta dei dati, tuttora lacunosa e non omogenea tra i Paesi Ue. La violenza di genere riguarda non solo le vittime di femminicidi, ma anche la capacità del Paese membro di fornire protezione alle vittime attraverso un’adeguata legislazione e una capillare sensibilizzazione. Per violenza di genere l’Eige considera anche i dati relativi alle mutilazioni genitali femminili che, nel nostro Paese, potrebbero riguardare circa il 15%-24% di un totale di 76.040 donne migranti presenti e infine la violenza virtuale.

L’ultimo dato su cui vale la pena soffermarci è quello relativo all’accesso al potere, misurabile in base alla presenza femminile nelle cariche pubbliche, professionali e sociali. Tale dato è decisamente migliorato nel corso degli anni, ma resta tuttora sconfortante leggere che tra il 2005 ed il 2018 siamo passati dal 3% al 36% di donne nei CDA delle maggiori società quotate in borsa e che la percentuale di donne parlamentari, nello stesso periodo di tempo, è passata dall’11% al 34%, mentre quella relativa alle donne ministre dal 9% al 22%. Questo significa che ogni cinque ministri, sorprendentemente compare una donna, peccato però che l’indice non ci possa raccontare le pressioni, le offese e le discriminazioni che tale ministra è costretta a subire, solo per il suo essere nata donna.