Sull’autobus dei confini immaginari

di Igor Micciola

È stato sospeso l’autista della Tep protagonista dell’episodio di razzismo, di cui abbiamo pubblicato qualche giorno fa, secondo quanto dice l’azienda stessa a mezzo stampa. Ed è l’ennesima conferma che a dividerci abbiamo solo da perdere. Sì, perché quando usiamo l’aggettivo “triste” per casi come questi, descriviamo in breve una sconfitta senz’appello: ci perde la Tep per le ricadute sulla propria immagine, ci perde l’autista punito, ci perde chi è stato umiliato dalla violenza verbale e per cui la punizione è una magra consolazione, e ci perde anche chi si è trovato suo malgrado ad assistere alla scena. E tutto questo per cosa? Non si può liquidare la faccenda puntando il dito verso un colpevole, perché non parliamo di una colpa individuale ma di un problema sociale.

Il centro di tutta la vicenda sta nella divisione, nella discriminazione, nella competizione, chi è dentro e chi è fuori. I confini, immaginari o “reali” poco importa, hanno questo enorme potere: ci rendono miserabili. All’interno del confine, rimangono milioni di persone (giusto per considerare solo l’Italia) con la paura che il muro non regga, in preda al panico alimentato da decenni di episodi di cronaca, che inducono subdolamente a fare di tutta l’erba un fascio. Chi è fuori rischia la vita per entrare e, quando riesce, si ritrova comunque al di là di limiti immaginari: diventa un essere umano di serie B, si trasforma in un cattivo da fumetto, con tutto il rispetto per i fumetti, data la narrazione di bassissimo spessore che li ritrae così.

Quando parliamo di divisione, parliamo di competizione. Sempre. Certo, è difficile pensare a una concorrenza tra l’autista, che perde il lavoro per il suo comportamento scorretto, e due ragazzini africani. Parlo della competizione intesa come motore immobile al centro della nostra società, uno strumento di misurazione con il quale ci hanno abituato a distinguere tra migliori e peggiori. È la competizione costante cui siamo soggetti che ci porta a pensare o a sperare, più o meno consciamente, “io sono migliore di te”. E quando si ha poco di cui essere orgogliosi, rimane solo la propria presunta identità a farci da scudo, a segnare una differenza. “Io sono migliore perché sono italiano”, come se essere nati qui non fosse un caso, ma una strana specie di merito.

Sarebbe di gran lunga più logico che fossero le nostre azioni a definirci, a renderci orgogliosi. Quindi, l’unica cosa che conta davvero è ciò che abbiamo in mente di fare, i nostri progetti. E dato che andare fieri di un’identità per cui non si ha nessun merito porta solo a creare categorie, confini e paure, forse è preferibile sentirsi parte di una comunità che condivide la stessa idea di futuro e sulla base di questa collaborare, non competere. O preferiamo davvero continuare a essere parte della società del panico e della sconfitta annunciata?