Solo un nuovo femminismo ci salverà. Nancy Fraser a Parma

di Marco Adorni

Nancy Fraser

Lo scorso 19 maggio, Nancy Fraser, invitata a Parma da Senso Comune, ha illustrato ai tanti presenti, assiepati nella sala della Corale Verdi, alcuni dei temi più “scottanti” contenuti nel suo ultimo libro,  Femminismo per il 99%. Un manifesto, scritto con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Il dibattito, preceduto da un’introduzione di Lorenza Serpagli, è stato vivo e partecipato. Vi hanno avuto un ruolo non secondario le interlocuzioni di Barbara Bertani, Carla Ruffini (Non una di meno di Reggio Emilia) e Tifany Bernuzzi (Centro Studi Movimenti di Parma).  Le questioni poste erano tante e piuttosto complesse. Anche una parte del pubblico è intervenuta, aggiungendo elementi importanti di riflessione teorica e politica. Che cos’è il “femminismo per il 99%”?

È un tipo particolare di femminismo che, pur non abbandonando i temi classici, li riposiziona politicamente, cioè li legge alla luce della congiuntura politica. Ci troviamo, secondo l’autrice, in un tempo di confusione e ribellione che rende necessario, anzitutto, scrivere con passione il nostro scontento, il malessere che proviamo quando ci vien sottratto persino il salvagente che, nel Secondo dopoguerra, era rappresentato dal welfare state: questo spiega anche il carattere di pamphlet del libro appena pubblicato per i tipi di Laterza. Fraser si dice convinta che sia in atto una crisi della riproduzione sociale, cioè di quel pilastro fondamentale delle società senza cui nemmeno la produzione (ovvero il lavoro orientato al profitto e al salario) sarebbe mai stata possibile; una crisi sulla quale sarebbe opportuno scommettere politicamente, dal momento che il capitalismo non riesce a risolverla.

Che cos’è avvenuto, infatti, durante l’età neoliberale? Che le donne hanno cominciato, legittimamente, a uscire dal mero ambito della riproduzione per dedicarsi, anch’esse, alla produzione; allo stesso tempo, il welfare state è stato progressivamente smantellato, rendendo necessario un surplus di costi, a carico delle famiglie, per mantenere il livello di prestazioni garantite, in passato, dalle istituzioni: i diritti sociali sono divenuti, così, diritti privati, disponibili solo a quelle famiglie in grado di sostenere economicamente nuove figure professionali di addette alla cura, cioè manodopera femminile proveniente da Paesi poveri, appartenente a etnie minoritarie e a classi subalterne. Il femminismo liberal non ha alterato minimamente il fatto che la nostra sia una società che ancora assegna alle donne il lavoro di cura: le società capitaliste sono, per definizione, fonti di oppressione di genere. Il sessismo, infatti, è connaturato alla natura stessa del capitalismo: la divisione tra donne e uomini è proprio sulla base dell’assegnazione alle prime della produzione delle persone e ai secondi della produzione per il profitto.

Pur essendo fondamentale, la riproduzione sociale, perciò, è stata messa sotto attacco da due forze intimamente convergenti: femminismo liberal e attacco neoliberale ai pilastri dello stato sociale. Il femminismo mainstream, in America, si è imposto al punto che erano voci nel deserto quelle di chi ne criticava i capisaldi. Oggi Fraser è convinta che le cose stiano cambiando, proprio a causa della crisi di cui sopra. Il femminismo liberal, pur rivendicando il sacrosanto diritto delle donne a non essere discriminate tanto nella vita lavorativa quanto sul piano sociale, non ha spostato di una virgola il discorso del potere capitalistico perché ha abbandonato la storica battaglia per l’egualitarismo per sposare quella della meritocrazia.

Ecco, allora, la necessità di un femminismo che sappia praticare l’esodo dal campo neoliberale e recuperare il mos maiorum della migliore tradizione democratico-socialista, cercando di rappresentare non solo gli interessi materiali e la sfera valoriale delle donne ricche e progressiste ma anche di quelle che, in conseguenza della loro subalternità socioeconomica, non sono rappresentate da lotte che ne ignorano la drammatica quotidianità di sfruttamento e di oppressione. Questo femminismo del 99%, poi, deve comprendere anche gli uomini, ovvero tutti coloro che sono costretti a vivere ai margini del sistema neoliberale, che sono esclusi dall’1% che comanda. In questo 99% figurano i migranti, le minoranze etniche, culturali, religiose, sessuali, ecc.

La questione rimasta in sospeso è, però, bene o male, sempre la solita: siamo davvero convinti che basti l’organizzazione di nuove forme di sciopero (di genere e dal genere, inter alia) e di mobilitazione? Il rischio che i “movimenti” finiscano nell’istituzionalizzazione è sempre dietro l’angolo. Quale ne sarebbe l’antidoto? Una nuova forma di partito transnazionale in grado di stipulare una nuova relazione tra produzione e riproduzione sociale? Ma come costruire, tale “partito”, se vincoli esterni alle comunità nazionali impongono tagli alla spesa sociale? Se i “mercati” minacciano terremoti economico-finanziari in caso di minacce al quadro capitalistico dato? Se persino il modo in cui i popoli interpretano i fenomeni più svariati (dal terrorismo alla guerra al terrore, dal pericolo sovranista alle “ondate migratorie”) è oggetto di una pesantissima opera di falsificazione o di banalizzazione che sembra corrispondere al “sentire medio” del cittadino impaurito e bisognoso di quella protezione che lo Stato non gli assicura più?

A queste domande, la filosofa oppone la speranza di una democratizzazione dall’interno di un governo globale, che, però, non pare una risposta politica ai problemi posti dal suo libro, almeno se intendiamo con “politica” qualcosa che ha a che fare con la capacità di intervenire, qui e ora, alle urgenze di una comunità reale di uomini e di donne che hanno scelto di vivere, lavorare, “fare comunità” in un luogo preciso e distinto del mondo. Dal discorso di Fraser, infatti, il livello nazionale è totalmente espunto. La sua convinzione è che la scala globale dei problemi odierni (come dimostrato dall’emergenza climatica) rende inutile, anzi dannosa, la rivendicazione di una dimensione della sovranità politica a partire dal livello nazionale.

In conclusione: è mia convinzione che la scommessa politica del femminismo del 99% sia da abbracciare. E, tuttavia, essa non dovrebbe affidarsi solo al progetto di una nuova declinazione del rapporto tra lavoro produttivo e riproduttivo. Il rischio che si rimanga su un piano di astrazione, in questo caso, sarebbe troppo alto. Occorrerebbe contemporaneamente provare ad abbozzare una ridemocratizzazione di quella fondamentale funzione della “statualità” senza cui non è possibile regolare il gioco dei mercati. Uno Stato multinazionale sui generis, capace di praticare allo stesso tempo «l’alto» – attraverso una governance multiscala a cavallo tra la dimensione nazionale e internazionale – e il «basso» – mediante la tutela, costituzionamente garantita, dell’individualità dei popoli e del diritto, di ognuno di essi, a un’esistenza, presente e futura, libera dalla coercizione dei mercati.