Il Salone di Torino e lo spazio della politica

da Art Lab

Stefano polacchi (a sinistra, in camicia a righe), responsabile della casa editrice Altaforte, legata a Casapound, durante gli scontri del 29 ottobre del 2008, in piazza Navona a Roma, (foto: Samantha Zucchi – Insidefoto)

Tiene banco da diversi giorni la notizia della partecipazione al Salone del libro di Torino di case editrici, una in particolare, Altaforte, legate alla galassia neofascista italiana, in particolare a CasaPound. La querelle è nata dopo che Christian Raimo, si è dimesso dal ruolo di consulente del Salone e a ruota lo hanno seguito molto autori da Ginzburg a Zerocalcare, fino al Museo di Auschwitz. Altri invece, si sono accodati a Michela Murgia che, invece, parteciperà ugualmente all’evento, a sua detta per costruire un meccanismo di resistenza dall’interno e non lasciare quello spazio in balia dell’editoria nostalgica. Ora, in entrambe le posizioni ci sono aspetti positivi e negativi, dei quali non entriamo nel merito.

Non lo facciamo perché già se ne sta discutendo abbondantemente, costituendo di fatto una parte importante del dibattito sull’argomento. Lo spazio della politica è di fatto uno spazio multivariato ed oltre che di ideologie e pratiche è fatto anche, tra le altre cose, anche di modalità e tempi. Non è né utile né necessario che si costituisca un dibattito sulle buone pratiche, trattando come alterità chi sostiene una tesi diversa dalla nostra, mentre il neofascismo si prende parte della nostra quotidianità e del palcoscenico mediatico. Non perché non lo sia in assoluto, ma esistono spazi e tempi adeguati a ciò. Ora, posto questo assunto, posto il fatto che dovremmo riconoscere come reciproco chiunque metta in campo forme di resistenza attiva, sia dall’ interno che dall’esterno del Salone, bene che vengano annullati incontri, bene che vengano organizzate contestazioni all’interno, bene che vengano organizzate all’esterno, bene che proliferino manifesti, volantini, adesivi e materiale comunicativo. Bene tutto. Siamo fatti così, spesso d’accordo sulla destinazione, raramente sul percorso, ma nel riconoscimento reciproco possiamo essere efficaci.

Detto ciò, è necessario allontanare posizioni ambigue e cerchiobottiste, che come di consueto circolano a latere di eventi come questo. È l’esempio dell’onnipresente Enrico Mentana, che dopo aver rafforzato la sua figura tramite l’odiosa pratica del “blastaggio social” paventa una presunta inoffensività della casa editrice nostalgica in relazione alle dimensioni dello stand “non più grandi di un’edicola” (caro Enrico, non ti ha mai spiegato nessuno che non sono le dimensioni che contano?). Così altri si accodano suggerendo di ignorare la presenza di Altaforte per non farne pubblicità. Viene da chiedersi se nulla abbia insegnato la lezione delle periferie romane, dove il neofascismo è proliferato incancrenendole, mentre ci si voltava dall’altra parte “per non concedergli visibilità” e dove in questo momento esatto si inneggia allo stupro di famiglie “Rom” colpevoli di essere Rom e avere diritto ad un alloggio popolare.

C’è anche chi, invece invoca l’arte e la cultura come meccanismo salvifico e liberatorio contro i barbari neofascisti, incivili e illetterati. Questa posizione per tanti anni è stato un mantra di molti e, oltre a essere sbagliata su più livelli, è anche molto pericolosa. La costruzione di un elemento di intrinseca sacralità salvifica rispetto al mondo della cultura, della letteratura e più in generale dell’arte, è quanto di più erroneo. In primo luogo, stereotipare i neofascisti come ominidi illetterati e sostenere che la produzione culturale sia appannaggio del resto del mondo “progressista”, ci fa sottovalutare quello che è il nemico. Che a quanto pare, legge, scrive e pubblica. Ma questo non è una novità, anche Hitler ha una bibliografia e Goebbels aveva un dottorato sull’arte rinascimentale. La cultura non è uno spazio neutro, bisogna rendersene conto, lo spazio ideologicamente neutro appartiene solo al mercato, che pure è un soggetto reale all’interno della kermesse torinese, ma che ora preferiamo non tirare in ballo. La produzione scritta è sempre stata strumento del potere e del contropotere, della riaffermazione del costituito o dell’affermazione del costituente.

Quindi, la cultura e la letteratura sono, e dovrebbero essere, un terreno di battaglia da cui i neofascisti dovrebbero essere espulsi: invece, è un terreno che stanno conquistando e che in parte hanno già conquistato. Il Salone del libro di Torino finirà il 13 maggio e con lui anche la pantomima di intellettuali e fantomatici comitati di indirizzo, che nonostante i dottorati di ricerca su complesse esegesi letterarie, non riescono a riconoscere un fascista neanche dopo un’autodenuncia. La sfida vera è al di fuori dell’evento, dove i neofascisti forse non militarmente ma culturalmente ci stanno strappando pezzi di mondo. Nelle librerie delle grosse catene, dove i testi vengono distribuiti: Mondadori, Libraccio e Feltrinelli. Ma soprattutto nelle periferie e nelle città che abitiamo, da Casalbruciato e Torre Maura alla nostra Parma. Facciamo che tutto questo ci possa essere utile per ricordare che il posto di un fascista non è sotto lo stand del Salone del libro ma sotto la pompa di benzina di piazzale Loreto. Sperando di non trovare mai più Hannah Arendt di fianco a Chiara Giannini.

«Nell’universo frastornato di libri, di comunicazioni, di valori che spesso sono pseudovalori, di informazioni (vere e false), di sciocchezze, di lampi di genio, di forsennatezze, di opache placidità, io mi rifiuto di far parte della schiera di tappezzieri del mondo, degli imballatori, dei verniciatori, dei produttori di mero». (G. Feltrinelli)